"Non dubitare che un gruppo di cittadini impegnati e consapevoli possa cambiare il mondo: in effetti è solo così che è sempre andata" (Margaret Mead)

venerdì 28 settembre 2012

La vita fatta di priorità, Giavazzi & Alesina e lo Stato sociale

La vita è fatta di priorità: così dice o diceva (non so se viene ancora trasmesso) l'ammiccante spot del gelato Magnum Algida.
E lo stesso vale per la politica e l'economia.
L'economia è, dovrebbe essere, l'impiego di risorse scarse per la soddisfazione dei bisogni umani e dunque impone sempre delle scelte su quali necessità sia opportuno privilegiare e quali altre considerare secondarie. E la politica, in quanto governo della società, si fonda anch'essa sul dovere di individuare gli obiettivi da perseguire prioritariamente, in un contesto definito da un lato dalle risorse disponibili e dall'altro dai principi e valori etici su cui si fonda la convivenza civile e che definiscono il bene comune.
Per l'ineffabile duo Giavazzi e Alesina la priorità è la crescita ed in funzione di questa, come scrivono nel loro ultimo editoriale di domenica 23 settembre sul Corriere della Sera, bisogna ridurre le spese dello Stato sociale – pensioni, sanità, scuola pubblica – per diminuire il fabbisogno finanziario pubblico e dunque le tasse e con ciò favorire la crescita.
Concetti già espressi da Mario Draghi: lo Stato sociale europeo è morto perché costa troppo mantenerlo a causa delle trasformazioni demografiche che si sono verificate in Europa ed anche in Italia. Troppi vecchi a cui pagare le pensioni e per troppo tempo, troppi vecchi da curare e i vecchi hanno bisogno di maggiori e più costose cure.
Ora intanto è tutto da dimostrare che un Paese che lasci campo libero al far west sociale (meglio la Germania e i Paesi scandinavi fondati sul welfare o gli Stati Uniti?) e comunque sulla liberazione delle dinamiche del mercato anziché sull'intervento pubblico, secondo le teorie keynesiane, sia più idoneo a favorire la crescita o quantomeno una crescita virtuosa. Ma soprattutto la crescita, concetto discusso e discutibile per chi apprezza Maurizio Pallante e Paolo Cacciari ma contestato, addirittura oltre quarant'anni fa, anche da Robert Kennedy (cfr. il video aggiunto alla fine del post), non può essere in sé considerato il fine ultimo di un consesso sociale. Al massimo può essere definita un mezzo o una condizione per incrementare la ricchezza materiale collettiva da redistribuire eventualmente in base ai principi che si ritengono equi e per consentire di far fronte alle funzioni fondamentali dello Stato e tra queste appunto le pensioni, la scuola e la sanità.

E' evidente che le trasformazioni demografiche – l'allungamento della speranza di vita e l'età media della popolazione – impone una rimodulazione ed un efficientamento delle spese sociali. Ma è tutto da definire in quale misura e con quali obiettivi finali. Si può appunto continuare a considerare una priorità sociale assicurare a tutti la certezza di essere curati (chiedendo di partecipare in misura proporzionalmente maggiore alle spese a chi più ha) e di godere della pensione in età utile a godersi in buona salute la vecchiaia (sapendo che la speranza di vita è diversa per chi ha svolto certi tipi di lavoro – l'operaio in fonderia o alla catena di montaggio ad esempio - rispetto a coloro che hanno ricoperto altri ruoli quali quelli di professore universitario, di politico, di alto burocrate, di manager), cercando di intervenire sia dal lato dell'offerta di risorse (ricerca scientifica e tecnologica, allargamento della popolazione attiva) che da quello della domanda di servizi sociali e dei relativi costi (riduzione degli sprechi, imposizione di un tetto massimo agli importi delle pensioni, prevenzione per ridurre l'insorgere delle patologie).
Tralasciando qui i ragionamenti sull'opportunità più in generale di una vera revisione della spesa che tagli gli stanziamenti per le spese militari, il sovvenzionamento abnorme della politica, le grandi opere inutili oltre che rimettere in discussione le modalità di finanziamento del fabbisogno dello Stato per trovare alternative alla dittatura dei mercati, si deve dare per scontato che sia ineluttabile ridurre le pensioni (il valore di quelle medio-basse e gli anni di erogazione) e la copertura sanitaria oppure sarebbe più giusto ed utile cominciare dal porre fine all'ingiustizia delle pensioni d'oro (100 mila privilegiati che comportano 13 miliardi di euro di spesa all'anno per la collettività secondo i calcoli pubblicati sul blog di Beppe Grillo) e dal contrasto alle degenerazioni, agli sprechi, alla corruzione nella conduzione della sanità pubblica, assicurando la qualità dei servizi offerti insieme al contenimento dei costi nei limiti della ragionevolezza? Per Gino Strada, solo per portare un esempio, un intervento di sostituzione mitralica costa 20,000 euro in un ospedale pubblico e 1800 euro in una struttura di Emergency. Cosa si aspetta ad abbandonare la pratica deteriore delle nomine politiche nelle ASL e negli ospedali e perché non pensare all'autoproduzione nelle strutture pubbliche di farmaci e di presidi sanitari? Quali risparmi potrebbero derivare dall'adozione di innovative soluzione organizzative (si è parlato di privilegiare la cura domiciliare al ricovero ospedaliero, di somministrazione di farmaci nella quantità effettivamente commisurata alle necessità terapeutiche, di prescrizione di farmaci palliativi al paziente sano che 'pretende' la ricetta solo per essere tranquillizzato)? E soprattutto facendo reale prevenzione per ridurre incidenti sul lavoro, quelli derivanti dalla circolazione stradale, i danni derivanti dall'inquinamento, da una cattiva alimentazione e dall'uso di droghe, alcool, fumo e dall'abuso di farmaci. Prevenzione che si realizza attraverso la giustizia e la sicurezza sociale, la tutela dell'ambiente, la promozione della cultura, il riconoscimento a ciascun individuo della possibilità di realizzare appieno la propria personalità e le proprie attitudini.



Oppure come fanno Giavazzi e Alesina si taglia tutto in nome della crescita (cioè del profitto) e di una pelosa razionalità ed equità riducendo drasticamente la platea dei beneficiari dello Stato sociale?
Ma come si definisce una persona abbastanza ricca per togliergli il diritto alla sanità gratuita quando esistono condizioni patologiche e tipologie di interventi chirurgici (la disabilità, i tumori, le malattie mentali, i trapianti di organo, l'alzheimer per fare alcuni esempi) che in assenza di una copertura da parte del servizio sanitario nazionale condurrebbero inevitabilmente alla miseria un individuo e la sua famiglia?
E come si fa a considerare le assicurazioni sanitarie private che in quanto fondate sul profitto non estendono la propria copertura a chi supera una certa età ed a chi è stato colpito da malattie gravissime, croniche, incurabili un'alternativa ad un sistema che possa proteggere universalmente tutti gli individui a partire dai più bisognosi di cure?
A chi conviene risparmiare ipoteticamente mille euro di tasse all'anno per spenderne altrettanto in assicurazioni sanitarie private salvo venire lasciato al proprio destino quando non sia più un buon cliente?
E' un folle Obama, e coloro che l'hanno votato attratti dalle sue promesse, a porre nella realizzazione di un servizio sanitario nazionale accessibile a tutti la premessa per rendere la società americana più giusta e solidale? (Che poi non l'abbia realizzato è un altro discorso …).
Premesso che i ricchissimi difficilmente si fanno curare nelle strutture pubbliche ed invece abitualmente ricorrono a cliniche private di lusso magari in Svizzera o negli Stati Uniti, rendere la sanità pubblica un sistema solo per i poveri non avvantaggia come detto i ceti medio-alti (coperti dalle assicurazioni private solo finché restano sani determinando un'ulteriore fattore di precarietà e di paura del futuro) e determina la creazione di una sanità di serie B, priva di risorse adeguate, di strutture di eccellenza, di economie di scala, della possibilità di fare ricerca.
Analogo ragionamento può essere fatto per l'istruzione: farne pagare completamente il costo alle famiglie degli studenti, salvo il caso di giovani meritevoli ma poveri, significa sancire una condizione di inappellabile disuguaglianza tra i cittadini di pari capacità e merito. Le famiglie ricche continueranno a garantire al massimo livello possibile l'istruzione dei propri figli, anche se non particolarmente dotati, nella certezza di poterli inserire nei propri studi professionali, nelle proprie imprese, negli alti gradi della pubblica amministrazione forti delle proprie relazioni e contatti, mentre per tutti gli altri la decisione di proseguire gli studi diventerebbe un azzardo rischioso, una scelta di vita angosciante.
Facendo disperdere talenti e capacità che magari hanno solo bisogno di tempo e di serenità per potersi realizzare appieno.
C'è un ultimo aspetto aberrante nei ragionamenti di Giavazzi e Alesina. L'assenza del riconoscimento dello status di cittadino che ha il diritto di pretendere proprio in quanto cittadino servizi pubblici efficienti e di qualità e che questo diritto sia vincolato solo al fatto di avere un rapporto di tipo privatistico con l'erogatore del servizio (la scuola a cui pago la retta, il comune da cui posso pretendere che sistemi le strade e i marciapiedi a fronte del pagamento dell'IMU, l'erogatore del servizio sanitario a pagamento).
Vale la pena di rinunciare alle sicurezze sociali (sia chiaro che si parla di sicurezze teoriche perché la realtà italiana è già ora totalmente insoddisfacente essendo la gratuità, l'eccellenza e l'estensione dei servizi sociali, sanciti dalla Costituzione, negati dall'imbastardimento, dalla corruzione, dal degrado del sistema pubblico) per la crescita nella speranza che questa possa realizzarsi attraverso il risparmio di qualche centinaia di euro l'anno di tasse per il contribuente medio (e naturalmente, anche se Giavazzi e Alesina non lo dicono, di milioni di euro per i ricchi)?


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