E' dall'inizio della Grande Crisi
esplosa nel 2007-2008 che si parla in Italia e nel mondo, a dire il
vero negli ultimi tempi sempre di meno, dell'opportunità/necessità
di imporre un'imposta sui grandi patrimoni, nella versione radicale
di Modiano
o in quella soft della CGIL
o quantomeno di un aumento della tassazione a carico dei più ricchi
auspicata perfino da miliardari come Warren
Buffet o Carlo De Benedetti.
E questo sia per trovare risorse per
riequilibrare i conti pubblici, di fronte alle crisi del debito, sia
per redistribuire redditi a favore dei ceti popolari (i dati Istat ci
dicono che la
quota di reddito nazionale destinata al lavoro è passata dal 72
per cento del 1992 al 67 per cento del 2012), sia infine per
incentivare le attività produttive spostando la tassazione dal
lavoro e dall'impresa verso la rendita (cioè i proventi derivanti
dalla mera proprietà di beni, siano essi capitali o immobili, senza
lo svolgimento di alcuna attività).
Di fatto i governi che si sono
succeduti in questi anni di Grande Crisi (Berlusconi, Monti, Letta,
Renzi) hanno tutti respinto questa eventualità e la crisi è stata
pagata in massima parte dai ceti medio-bassi con la disoccupazione
causata dalla chiusura di centinaia di migliaia di imprese ed
esercizi commerciali, con l'aumento della tassazione, con la
riduzione del reddito indiretto costituito dalle prestazioni dello
Stato sociale. In realtà vi è stato anche un aumento della
tassazione sui beni patrimoniali (con la revisione dell'ammontare
dei bolli sui depositi finanziari e delle aliquote sugli interessi,
con l'ICI, IMU, Tasi o comunque siano state chiamate le varie forme
di imposizione fiscale sulla casa) ma senza criteri di progressività
e dunque ha colpito anche qui soprattutto i ceti medio-bassi. La
crisi del mercato immobiliare (con una perdita
media del 20 per cento del valore nominale degli immobili
residenziali rispetto ai prezzi pre-crisi, a causa della recessione e
dell'aumento della tassazione sulla casa) ha costituito un ulteriore
colpo fatale per le condizioni economiche dei ceti medio-bassi,
colpendo la principale forma di risparmio degli italiani, la casa
appunto, ed impedendo di poterne monetizzare il valore, stante
l'impossibilità o l'estrema difficoltà di vendere, in caso di
bisogno. Di fatto una vera e propria patrimoniale che però non è
stata pagata dai ricchi e non è andata a vantaggio dei conti
pubblici.
E' evidentemente mancata la volontà
politica di imporre la patrimoniale trattandosi di governi tutti
espressione del grande potere economico (nelle sue varie facce:
quella più legata al capitalismo nazionale e quella di palese
emanazione internazionale).
E' vero che esistono difficoltà
oggettive nell'applicare una tassa sulle grandi ricchezze: perché se
da un punto di vista statistico (secondo Banca
d'Italia il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede il
46,6 per cento della ricchezza familiare netta totale) non esistono
dubbi sulla distribuzione della ricchezza diventa assai più
difficile identificarne i veri proprietari (tra capitali più o meno
legalmente esportati all'estero, frazionamenti societari e familiari,
evasione ed elusione fiscale, ecc.) e l'effettivo valore dei cespiti
finanziari ed immobiliari .
Osservando gli effetti delle politiche
attuate in Europa in questi anni dovrebbe comunque essere chiaro a
tutti che, per non deprimere ulteriormente l'economia seguendo la
logica dell'austerità e del pareggio di bilancio, le risorse
ottenute con una imposta patrimoniale andrebbero impiegate non per
ridurre il deficit pubblico ma per realizzare un'equa redistribuzione
della ricchezza ed in tal modo sostenere i consumi e l'economia: con
il rafforzamento del welfare, con investimenti pubblici produttivi e nelle piccole ma indispensabili opere di manutenzione del territorio
e del patrimonio artistico ed archeologico.
Premesso tutto questo vi sono almeno
due forme di patrimoniale che sarebbero immediatamente applicabili
senza particolari difficoltà tecniche e che potrebbero trovare un
consenso generale rispondendo anche a finalità etiche e di
moralizzazione della vita pubblica.
La prima è il ripristino dell'imposta
di successione (così come ci suggerirebbe oggi Luigi Einaudi, un
liberale e non un socialista, se fosse ancora vivo).
La seconda è la confisca integrale,
come pena accessoria, dei patrimoni non solo di chi fa parte
organicamente delle associazioni mafiose ma anche di chi vi collabora
dall'esterno, di corrotti, corruttori, grandi evasori fiscali, bancarottieri, di chi
ha esportato illegalmente capitali all'estero, dei colpevoli di
disastri ambientali.
Tenuto conto delle cifre che sono in
ballo (alcune centinaia di miliardi di euro l'anno il 'valore'
dell'economia illegale e criminale secondo le stime della Corte dei
Conti e della Banca d'Italia che rende facile immaginare l'entità
gigantesca dei patrimoni illecitamente accumulati nel tempo), una
lotta senza quartiere condotta dagli organi dello Stato che riesca ad
aggredire anche percentuali minime di questa massa di ricchezza
illegale condurrebbe certamente a recuperare decine di miliardi di
euro l'anno.
Soprattutto se si avesse il coraggio radicale di estendere la confisca dei grandi patrimoni a coloro che, inquisiti dagli uffici tributari, non siano in grado di provare la lecita provenienza (attività economiche, eredità, ecc.) della propria ricchezza.
Quella che era insomma la proposta di Antonio Ingroia per Rivoluzione Civile nelle elezioni politiche del 2013 e che fu all'epoca fu sbrigativamente bollata (magari da chi ha il conto in banca in rosso) come 'manettara'.
La cronaca politico-giudiziaria ci fornisce a getto continuo i casi (Mose, Expo 2015, la ricostruzione dell'Aquila, la sanità) in cui potrebbe essere applicata tale pena accessoria e probabilmente avrebbe un valore deterrente ben maggiore di qualche settimana di condanna ai servizi sociali per i colpevoli, così come avviene ora.
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