"Non dubitare che un gruppo di cittadini impegnati e consapevoli possa cambiare il mondo: in effetti è solo così che è sempre andata" (Margaret Mead)

venerdì 25 febbraio 2011

Il mistero dell'arretratezza politica, civica e morale degli italiani – Il lascito del fascismo e le rivoluzioni mancate

di Mario Armellini (1).



Ciò che mi sembra necessario ed urgente capire, perché ne va della stessa democrazia, come la vicenda Berlusconi dimostra, è come porre dei rimedi alla degenerazione del sistema dei partiti, sempre più autoreferenziali e incapaci di fare il bene pubblico, sempre più incapaci di rispondere ai gravi bisogni del Paese. Al di là dei facili sfoghi emotivi, mi sembra non si faccia uno sforzo adeguato nel porre al centro del dibattito, della riflessione e dell'azione politica questa tematica, che non si riduce al problema Berlusconi, pur essendone Berlusconi la degenerazione più grave dai tempi del fascismo ad oggi.
Occorre pertanto fare uno sforzo di comprensione del processo che ha portato alla "volgarità dell'Italia dei nostri anni [...], la volgarità di un populismo senza regole " (L. Ornaghi, V.E. Parsi, La virtù dei migliori. Le élite, la democrazia, l'Italia, Il Mulino, 1994, 75). Dove è iniziata "la mutazione genetica", come la definì Scalfari nel 1994, che ha condotto sino all’attuale emergenza democratica dovuta al berlusconismo?
Questo “male” italiano è certamente antico, se già nel 1824 Giacomo Leopardi, nel suo famoso Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, sottolineava la “mancanza di società ”,“di buoni costumi” e dell’attitudine allo “scambievole disprezzo degli italiani”, nonché il loro "cinismo". “Le classi superiori d’Italia – scriveva Leopardi - sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci. Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui [… ] nel nostro proprio commercio… il cinismo è tale che supera di gran lunga quello di tutti gli altri popoli…” (http://www.leopardi.it/discorso_stato.php).

Come spiegare la “mancanza di società” e il “cinismo” degli italiani che denunciava Leopardi? Bisognerebbe forse risalire più indietro nel tempo, per trovarne le cause? Secondo Galli della Loggia sì, perché “giocherebbe a partire dalla fine del ‘500 il rinsaldarsi della prospettiva oligarchico-nobiliare in tutto il paese e l’affermarsi di una egemonia straniera”. E’ per questo che si “si fissa nell’anima della società italiana una concezione “venale” della politica, intesa come strumento per allargare reddito e prestigio sociale… fa terribile difetto nell’esperienza italiana la politica pensata ed agita come definizione (e realizzazione dell’interesse collettivo” (E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Il Mulino 1998, 93-4).
Altre spiegazioni rimandano alla “nazionalizzazione incompiuta”, al localismo e al familismo amorale tipici dell’Italia; alla “carenza civica” delle regioni meridionali, che Putnam fece risalire addirittura al medioevo, e cioè alla presenza dello Stato normanno contrapposto all’Italia dei comuni... Queste generalizzazioni di lungo periodo possono lasciare perplessi, perché sembrano risalire troppo indietro e non prendono in considerazione altri fattori che pure hanno avuto un peso notevole nel plasmare lo “spirito” del nostro paese. Ad esempio, come dimenticare il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica romana? Oppure gli effetti di lungo periodo del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, con la sua “rivoluzione democratica” mancata? Altra occasione perduta, in cui si fece l'Italia ma non gli italiani e da cui scaturì un prima grande “bugia” e fiumi di retorica. Cavour nel 1846 fu molto chiaro: “In Italia – affermò - la rivoluzione democratica non ha possibilità di successo… Il partito favorevole alle novità politiche non incontra grandi simpatie.. sulle classi medie e su quella superiore, così fortemente interessate al mantenimento dell’ordine sociale, le dottrine sovversive della Giovane Italia non hanno presa. Perciò ad eccezione dei giovani inesperti ed ingenui si può affermare che non esiste in Italia se non un piccolissimo numero di persone seriamente disposte a mettere in pratica i principi esaltati di un setta inasprita dalla sventura…” (cit. in C. Fracassi, la rivoluzione dei mille, Mursia 2010, 43). Di qui, poi, si potrebbe analizzare il ruolo che la minorità in cui è stato tenuto il meridione fin dall'Unità d'Italia ha giocato nel lasciare "divisa" l'anima del Paese.

Tra tutti questi aspetti, troppo numerosi e complessi per essere esaminati qui, focalizziamo per ora quello che attribuisce al fascismo la responsabilità del degrado “partitocratico” della Repubblica. Diversi analisti convergono nel considerare la partitocrazia (e la politica come mestiere) come un lascito specifico del fascismo (ad es., L. Cafagna, La grande slavina, L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, 1993).

Fu infatti con il fascismo che, per la prima volta, "le grandi masse degli italiani videro entrare il partito nella loro vita quotidiana... si abituarono a considerare il partito come mediatore abituale - e in un certo senso addirittura obbligato - del loro rapporto con lo Stato... La partitocrazia democratica, insomma, ha il suo atto di nascita nel fascismo. E la compenetrazione del partito con lo Stato si è rivelata fattore decisivo nello spianare la strada al clientelismo e alla corruzione politica" (E. Galli della Loggia, Le radici storiche di una crisi, 231). La sovrapposizione tra partito, strutture statali, enti pubblici e semi-pubblici, industrie di Stato ha lasciato segni profondi. Si è strutturata una "burocrazia parallela" la cui "carriera, dall'accesso alle promozioni, è scandita da benemerenze politiche" e che introduce quindi la discrezionalità nel cuore dell'amministrazione pubblica" (Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati, 1992,14). Di qui, “la progressiva evanescenza delle regole, il loro quotidiano curvarsi per il peso e interessi estranei: e ciò nel corpo stesso dello Stato che delle regole dovrebbe essere ispiratore e fondamento" (G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, Donzelli 2009, 27). E che diventa per questa via uno "Stato Introvabile " con una "amministrazione porosa" (Sabino Cassese).

Come sostenne Giustino Fortunato nel 1930, probabilmente il fascismo non fu che una "rivelazione" di mali e contraddizioni precedenti: "Il fascismo è rivelazione di quel che veramente è, di quel che veramente vale l'Italia". Al tempo stesso, però, il fascismo va considerato come laboratorio di istituzioni e culture che non scompaiono con esso. "Per quanto traumatici siano i crolli dei regimi autoritari - e quello del fascismo certo lo fu - non lasciano il vuoto, la tabula rasa. Non possono dissolversi come neve al sole quegli abiti mentali, quelle assuefazioni all'obbedienza e alla sopraffazione, quel considerarsi al di sopra delle norme o non riparati da esse sono il primo portato delle dittature" (G. Crainz, cit. 29).

Insomma, la realtà è che tra l’Italia fascista e quella post-fascista c’è stata una continuità, e non una rottura, e che proprio a tale continuità sia da attribuire (in che misura è da stabilire) il “male” profondo del Paese nelle sue condizioni attuali. Ma se questo è vero, allora occorre ammettere che la Resistenza non ha rappresentato quella “rivoluzione” della coscienza civile che abbiamo creduto. Forse, e senza essere tacciati di “revisionismo” (accusa sempre in voga, a sinistra, spesso usata a sproposito per difendere sistemi di credenze mitologiche consolidate), la Resistenza fu simbolicamente e moralmente importante, testimonianza di un’Italia coraggiosa e animata da ideali alti, ma che non fu quella “rivoluzione democratica” auspicata, e necessaria. Non determinò una radicale maturazione della coscienza civica del Paese, non riuscì a curare il “male” che lo affliggeva in profondità, e che lo affligge ancora oggi.
L’aver raccontato a se stessi per decenni una storia diversa rappresenta la seconda, grande bugia: quella di una “rivoluzione antifascista”, che avrebbe dovuto rigenerare, moralmente e politicamente, l’Italia dopo il ventennio fascista.

Nel dopoguerra, in continuità con la fase precedente, si consolida una cultura politica media e dei ceti medi lacerata e contraddittoria, espressione di tre diversi "padroni": la Legge, l'Interesse, il Partito, dove "uno fra tutti è risultato sicuramente perdente...: la Legge. Sempre calpestato dagli altri due (l'interesse e il Partito) è riuscito a sopravvivere malamente, facendo come l'Arlecchino nazionale, servitore di due padroni" (Mariuccia Salvati, cit., 228). Brillano come stelle solitarie i pochi esempi di integerrima dedizione allo Stato, come l’azionista Ernesto Rossi, prima in qualità di sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri, poi come presidente dell'ARAR (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958, quando fu costretto a dimettersi dalla pressione di un apparato che viveva come un corpo estraneo un servitore dello Stato che aveva fatto dell’onestà e del rigore la propria bandiera.

Dopo il lungo dominio democristiano, la degenerazione del sistema dei partiti apparve evidente nel corso degli anni ottanta, quando si cominciarono ad osservare i sintomi di una “uscita dalla legalità dell’intera classe dirigente, del suo costituirsi come realtà extra giuridica, non tanto contro la legge, ma fuori della legge... L’Italia è già molti passi avanti verso un potere di tipo preborghese, verso un potere sciolto dalla legge…” (E. Galli della Loggia, Dov’è lo scandalo, in “Mondoperaio”, marzo 1980). Nello stesso periodo, Italo Calvino scriveva un corrosivo Apòlogo sull’onestà del paese dei corrotti che iniziava così: “C’era un paese che si reggeva sull’illecito” (in “La Repubblica”, 15 marzo 1980). E Massimo Riva: “Mai si era vista tanta corruzione radicarsi così dentro e così largamente nelle strutture dello Stato” M. Riva, Lo Stato come preda, “La Repubblica”, 18 nov. 1980).
Questa Italia priva di senso civico, legata a doppio filo al vorace sistema dei partiti, è quella che emergeva, in tutta la sua pochezza, da una indagine promossa verso la fine degli anni ottanta dalla presidenza del Consiglio, dove si chiedeva ad un campione significativo di italiani cosa contasse di più per affermarsi nella vita, invitando a scegliere fra tre opzioni. Per il 48% la cosa più importante era “conoscere le persone che contano”, per il 42,5% “avere fortuna” e solo per il 35,4% “essere preparati culturalmente” (cfr. S. Lanaro, L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, 1988, 5-6, 22-23). Sarebbe interessante riproporre oggi questo sondaggio, magari aggiungendo una quarta opzione: "entrare nel gioco del Grande Fratello".
E così arriviamo agli anni 90, quando, apparve chiaro che un’intera classe dirigente si era posta fuori della legge, potere partitocratico insofferente ad ogni regola. Tangentopoli, insieme al contemporaneo attacco stragista della mafia, determinò uno "smottamento colossale" (Pansa), ma fu presto evidente che stava nascendo un altro Mito. Nel 1993, Galli della Loggia scrisse che stava nascendo una “bugia” che parlava “di rivoluzione - non più antifascista ma antiburocratica - che sarebbe in atto e che vedrebbe protagonisti gli italiani per così dire rigenerati, fatti moralmente nuovi... Francamente mi sembra difficile cogliere dietro questa retorica... un minimo di realtà. Ogni vera rigenerazione morale, per essere tale, deve cominciare da se stessi Come si può credere ad una qualunque nuova sostanza morale di massa dietro la cosiddetta rivoluzione italiana quando non risulta che siano mutati di un ette i comportamenti “morali” e “immorali” di massa degli italiani” (E. Galli della Loggia, Trasformismo e rivoluzione, “Corriere della Sera”, 22 aprile 1993).
Sempre di “bugia” parlava Sergio Romano: “Dopo aver rifiutato di considerare il fascismo un peccato nazionalee dopo essersi assolti “per non aver commesso il fatto”, gli italiani stanno addebitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qualche centinaio di uomini politici, imprenditori, funzionari. Sanno che è una bugia – ma cederanno probabilmente alla tentazione di credervi per assolversi in tal modo anche da questo peccato” (S. Romano, “Limes”, 1994, 4).
L’indignazione popolare che esplose (anche qui ci fu una “Giovine Italia “inasprita dalla sventura” che scese in piazza a lanciare monetine contro il potere corrotto), e che lasciò sperare che il Popolo raccogliesse la palma del cambiamento dalle “mani pulite” della Magistratura, finì però, col produrre null’altro che la successiva investitura di Berlusconi come nuovo Dux, Salvatore della Patria dal mai spento "pericolo comunista". Gli italiani erano sempre gli stessi. La loro natura bugiarda finì col consegnare tutto il potere al Principe dei bugiardi. E come avrebbe potuto essere altrimenti?
Come il fascismo, così il berlusconismo può essere considerato come una ulteriore "rivelazione" del reale senso civico e morale dell'Italia. Concedendosi al Re di tutti i bugiardi, che per anni ne ha nutrito le fantasie voyeuristiche e la subcultura fatta di telequiz, veline, disinformazione e Grande Fratello, la maggioranza degli Italiani si è di nuovo autoassolta, indifferente alle sorti della Democrazia, schiava di una antica e radicata “dittatura dell’ignoranza”, come l’ha definita Guido Viale, ed eterna vittima del proprio antico male. E' ancora questa la “zona grigia” del popolo italiano portata alla luce da Renzo De Felice? Quella che permise al fascismo di affermarsi e sopravvivere e che, senza un sussulto di dignità e di amor proprio, preferì astenersi dal combatterlo nel momento cruciale, lasciando che a farlo fosse l'esercito della Resistenza? (2)
In sintesi, e senza risalire troppo lontano nel tempo, si potrebbe allora attribuire lo stato pietoso della coscienza civica degli italiani - e della degenerazione partitocratica con tutto ciò che ne consegue in termini di degrado della vita pubblica, di sprechi e di corruzione (3) - alle tre "rivoluzioni" mancate: quella democratico-risorgimentale, quella antifascista e quella antiburocratica. Su tutte e tre è fiorita una mitologia. Per tutte e tre si è mobilitata una minoranza. In tutte e tre, la voragine della maggioranza ha inghiottito e spento ideali, risorse ed energie, isolando le minoranze attive, frantumando i movimenti, assopendo le coscienze. E consentendo, per "silenzio-assenso", all’inarrestabile degenerazione della vita politica e democratica.
Si potrebbe disquisire all’infinito su quali siano le cause di questo “male italiano”, che è lecito pensare abbia radici antiche, ma sembra indubbio che presenti almeno tre sintomi principali: un sistema dei partiti vorace, autoreferenziale e predatorio (la "partitocrazia") (4); la mancanza di senso civico degli italiani, che il sistema dei partiti alimenta e di cui è espressione (e dunque la “complicità” degli italiani col sistema predatorio della politica, che sostengono e da cui raccattano le briciole); la tendenza a raccontarsi “bugie”, a darsi cioè delle narrazioni mitiche (ideologiche) e lontane dalla realtà (guaio in cui è incorsa e incorre ancora la sinistra nel suo insieme).
Non si sa se ci sia una cura, se questo paziente che è il nostro Paese possa guarire o sia destinato ad una lunga e dolorosa agonia. La dialettica democratica non versa in buone condizioni. L’opposizione è in affanno, sembra anch’essa “malata”: mancanza di strategia di lungo respiro, particolarismi, divisioni, assenza di trasparenza, di democrazia interna, di tensione morale, con ampie sacche di corruzione, mancato ricambio dei dirigenti, ecc. I Movimenti stessi appaiono incerti, divisi, poco determinati, incapaci di darsi una strategia unitaria ed efficace, affetti anche loro da personalismi, egoismi (e cioè, alla fine, anch’essi malati dello stesso male che vorrebbero combattere). In più, affetti da quella tipica sindrome psichiatrica della sinistra italiana che è la tendenza alla divisione, alla frammentazione, alla litigiosità, all'incapacità di trovare punti di mediazione, di accordo, di unità (la litigiosità e la maldicenza tutta italiana di cui parlava Leopardi).
Nessuna forza politica che sia espressione della “giovine Italia”, cioè di quell’Italia più o meno minoritaria che fin dall’ottocento crede in una politica “alta”, può esimersi oggi dal considerare prioritaria la lotta alla "Casta" partitocratica (e all'economia criminale che essa alimenta) e la riforma radicale del sistema dei partiti. Sapendo che dovrà fare i conti sia con la resistenza attiva degli apparati, sia con la resistenza passiva della “zona grigia” costituita dalla maggioranza degli italiani che hanno trovato in Berlusconi la rappresentazione dei propri ideali, della propria visione del mondo, delle proprie speranze, della propria cultura.


Note:
1) Questo scritto è basato sul seguente testo, di cui riprende diverse citazioni e idee: Guido Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell'Italia attuale, Donzelli, 2009. 
2) Sulla "zona grigia" e il dibattito che ha suscitato: http://archiviostorico.corriere.it/1997/maggio/25/zona_grigia_Felice_divide_gli_co_0_97052512367.shtml. Come’è noto, la tesi sulla "zona grigia" di De Felice sosteneva che in Italia vi fu una guerra civile tra due minoranze e non “una guerra di popolo”, e che la stragrande maggioranza degli italiani non si unì né a Salò né alla Resistenza perché aspettava la fine della guerra e basta. Molti storici marxisti hanno contestato questa tesi, tra cui Tranfaglia, che rivendica con forza il carattere popolare della guerra partigiana. Tra le altre, ci sembra veramente ottimista la tesi di Lanaro che, dopo aver contestato quel giudizio "tutto negativo e moralista" di De Felice, assegna proprio alla "zona grigia" la capacità di trasmettere valori come il rispetto della persona.
3) Per Transparency International l'Italia è al 67° posto ("La Repubblica", 26 ottobre 2010): "Secondo la classifica stilata dall’ong Transparency International, elaborata analizzando 178 Paesi e presentata stamane, l’Italia scivola al 67° posto nell’indice sulla corruzione. Il nostro Paese è arretrato di quattro posizioni rispetto al 2009 e di ben 12 sul 2008.... Meglio di noi fanno il Ruanda e Samoa". Cfr: http://www.repubblica.it/economia/2010/10/26/news/corruzione_l_italia_sempre_peggio_per_transparency_international_al_67mo_posto-8442331
4) Col termine "partitocrazia" si indica "un regime politico in cui il potere effettivo ha i suoi centri nei partiti e non negli organi previsti dalla Costituzione. Il termine fu coniato dal giurista Giuseppe Maranini, che intitolò Governo parlamentare e partitocrazia la sua prolusione nella lezione 


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