"Non dubitare che un gruppo di cittadini impegnati e consapevoli possa cambiare il mondo: in effetti è solo così che è sempre andata" (Margaret Mead)

lunedì 1 luglio 2013

60 miliardi di euro per il lavoro



Mentre l'Italia torna ai livelli di disoccupazione del 1977, le proposte di buon senso – come quelle di Beppe Grillo e Paolo Ferrero – per recuperare risorse per ricreare occasioni di lavoro non possono essere tra loro molto dissimili.

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Il governo Berlusconi – Napolitano raschia il fondo del barile delle risorse pubbliche per provare a trovare qualche soldino per la ripresa e il lavoro e per allontanare l'applicazione di balzelli iniqui e recessivi (l'IMU sulla prima casa, l'aumento dell'IVA).
Nel frattempo il suo portavoce, Enrico Letta “il nipote”, va in Europa con il cappello in mano ed esulta per aver ottenuto 1,5 miliardi di euro dalle Istituzioni Comunitarie
Non ci dice niente ovviamente Enrico Letta di quale sia il saldo tra le risorse trasferite dall'Italia all'Europa e da questa restituite all'Italia (saldo negativo per oltre 22 miliardi di euro nel periodo 2007-2011); che l'impiego di questo miliardo e mezzo – i “bonus” per le assunzioni a tempo indeterminato – è già oggetto delle critiche demolitrici degli economisti a partire da quelli liberali; che la partecipazione al MES (il Meccanismo Europeo di Stabilità) costerà all'Italia oltre 125 miliardi di euro.
In un quadro in cui l'Europa e la BCE non adempiono all'unica cosa che sarebbe oggi sensata e giusta (garantire la solvibilità dei debiti degli Stati nazionali che aderiscono all'Euro e finanziarli attraverso l'emissione di nuova moneta (così come fatto da qualunque Banca Centrale), consentendo così la riduzione dei tassi di interesse e l'abbandono delle distruttive politiche di austerità) resta per le finanze italiane il buco nero degli ottanta miliardi di euro pagati ogni anno per finanziare il debito in ossequio alla convinzione, folle e criminale, che lo Stato debba dipendere per il reperimento dei fondi necessari allo svolgimento delle proprie funzioni (anche di quelle fondamentali e ineliminabili) dai 'mercati' condannandosi ad accettarne i ricatti – contro la democrazia e i diritti – e i costi esorbitanti che questi impongono.

Nulla ovviamente da parte del governo Berlusconi – Napolitano e dal suo portavoce Enrico Letta sull'opportunità di trasferire reddito e risorse dai ceti ricchi ai ceti popolari, per attenuare la condizione di inaccettabile disuguaglianza in cui vive il nostro Paese, agendo sulla leva fiscale: con un'imposta sui grandi patrimoni, con il ripristino della tassa di successione (a cui era favorevole anche il liberale Luigi Einaudi), sostituendo l'IMU sulla prima casa con qualcosa di simile a ciò che era l'INVIM (l'imposta sull'incremento dei valori immobiliari da pagare nel momento in cui vendendo il bene ad un prezzo maggiore a quello di acquisto si realizza un guadagno).
Lasciamo stare la riallocazione dei soldi impegnati nella TAV e nell'acquisto degli F35 (persino per 'non fare' il Ponte di Messina sono stati sperperati centinaia di milioni di euro) su progetti di reale valore sociale ed economico: roba da luddisti utopisti nemici del progresso.
Lasciamo stare l'idea di una draconiana riduzione delle retribuzioni dei dirigenti e manager pubblici e delle pensioni oltre i centomila euro l'anno: roba da comunisti.
Lasciamo stare la possibilità di mettere in campo una lotta all'evasione fiscale (stimata in 200 miliardi di euro l'anno) davvero in grado di produrre risultati in tempi brevi: i paradisi fiscali sono o non sono ammessi e tollerati dal consesso internazionale o addirittura localizzati all'interno dei Paesi del G8 e della UE? Uno dei maggiori azionisti del governo italiano non è quel Silvio Berlusconi condannato in primo grado per evasione fiscale a cinque anni di reclusione e nonostante questo (o forse proprio per questo ….) ricevuto con i dovuti onori da Napolitano persino dopo la conclusione del processo Ruby?
Inutile rammentare l'idea di procedure semplificate, veloci ed efficaci per la confisca dei capitali criminali e mafiosi (fatturato annuale di centoventi miliardi, patrimoni criminali stimati in mille miliardi): roba da sovversivi giustizialisti come Antonio Ingroia.
E mentre l'accordo con la Svizzera per un accordo fiscale che consenta di tassare i capitali illecitamente esportati nelle banche elvetiche resta ancora un lontano miraggio, rimane - nel novero di ciò che sarebbe assolutamente naturale fare per reperire risorse per il lavoro e che non verrà mai fatto per assenza di volontà politica – la lotta alla corruzione.
Un bacino a cui attingere di sessanta miliardi di euro secondo le stime della Corte dei Conti.
Riconducibili, credo, fondamentalmente a due filoni.
Quello dei funzionari pubblici infedeli (membri di assemblee elettive, amministratori pubblici, burocrati, agenti delle forze dell'ordine, magistrati, agenti delle tasse, ispettori del lavoro) che patteggiano con soggetti privati trattamenti di favore e in violazione della legge in cambio di denaro e 'utilità', a danno della collettività e dell'erario pubblico (concessione di licenze edilizie, sentenze, omissione di multe, accertamenti, denunce). .
E quello del sovrapprezzo pagato, a fronte di pratiche corruttive, dallo Stato e dalle amministrazioni pubbliche, sia in termini monetari che di minore qualità, nell'acquisto di beni e servizi e nell'assegnazione di lavori pubblici.
Per combattere la corruzione individuale servono norme e procedure trasparenti e non ambigue, non soggette alla discrezionalità di chi deve applicarle, servono organi di controllo e di auditing che possano monitorare gli atti dei funzionari pubblici, un'anagrafe patrimoniale degli eletti e degli amministratori dello Stato e degli Enti pubblici.
Per combattere la corruzione nell'assegnazione degli appalti e nell'acquisto di beni e servizi esiste, a mio avviso, una sola strada: reinserire all'interno delle pubbliche amministrazioni la produzione di tali beni e servizi.
Perché è fuori da ogni logica pensare che gli stessi beni e servizi possano costare di meno se forniti da aziende esterne, che devono essere remunerate per l'attività di impresa oltre a dover spesso recuperare quanto illecitamente versato per ottenere la commessa pubblica.
A meno che lo Stato non voglia tollerare, diventandone complice, paghe da fame, evasione contributiva, violazione delle norme di sicurezza come sarebbe possibile che dieci addetti alle pulizie o alla guardiania o dieci informatici possano costare alle amministrazioni pubbliche di meno se contrattualizzati attraverso una ditta esterna anziché assunti direttamente?
Lo Stato - da cui dipendono le forze di polizia, l'esercito, la Banca d'Italia, la scuola – non sarebbe in grado di organizzare e far lavorare al meglio i propri dipendenti? La convenienza di ricorrere a ditte esterne starebbe nella flessibilità da queste garantita e cioè nessuna assunzione a tempo indeterminato, impegno contrattuale commisurato alle effettive necessità anche da un punto di vista temporale? Ma le pubbliche amministrazioni già si avvalgano in misura abbondantissima della deleteria pratica del lavoro precario; esistono attività di cui non è pensabile (solo per indicare qualche esempio: le pulizie, la vigilanza, la manutenzione degli edifici) poter fare a meno; la creazione di consorzi (diretti da dipendenti pubblici 'in distacco') tra le amministrazioni pubbliche coinvolte consentirebbe di garantire le necessarie economie di scala.
I risparmi conseguiti attraverso la reinternalizzazione di ciò che è attualmente appaltato a imprese private ed il contrasto della 'mano morta' della corruzione (con tutti gli effetti devastanti che essa comporta nell'inquinamento del mondo delle imprese e dell'economia, della politica, nell'aprire varchi intollerabili alla criminalità organizzata) consentirebbero di aumentare la massa dei lavori di pubblica utilità, assorbendo il personale già impiegato nelle imprese private e fornendo ingenti nuove occasioni di lavoro, stante le cifre in ballo, per i disoccupati.

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