Mentre l'Italia torna ai livelli di
disoccupazione del 1977, le proposte di buon senso – come quelle di
Beppe
Grillo e Paolo
Ferrero – per recuperare risorse per ricreare occasioni di
lavoro non possono essere tra loro molto dissimili.
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Il governo Berlusconi – Napolitano
raschia il fondo del barile delle risorse pubbliche per provare a
trovare qualche soldino per la ripresa e il lavoro e per allontanare
l'applicazione di balzelli iniqui e recessivi (l'IMU sulla prima
casa, l'aumento dell'IVA).
Nel frattempo il suo portavoce, Enrico
Letta “il nipote”, va in Europa con il cappello in mano ed esulta
per aver ottenuto 1,5 miliardi di euro dalle Istituzioni Comunitarie
Non ci dice niente ovviamente Enrico
Letta di quale sia il saldo tra le risorse trasferite dall'Italia
all'Europa e da questa restituite all'Italia (saldo negativo
per oltre 22 miliardi di euro nel periodo 2007-2011); che l'impiego
di questo miliardo e mezzo – i “bonus” per le assunzioni a
tempo indeterminato – è già oggetto delle critiche demolitrici
degli economisti a partire da quelli liberali;
che la partecipazione al MES (il Meccanismo
Europeo di Stabilità) costerà all'Italia oltre 125 miliardi di
euro.
In un quadro in cui l'Europa e la BCE
non adempiono all'unica cosa che sarebbe oggi sensata e giusta
(garantire la solvibilità dei debiti degli Stati nazionali che
aderiscono all'Euro e finanziarli attraverso l'emissione di nuova
moneta (così come fatto da qualunque Banca Centrale), consentendo
così la riduzione dei tassi di interesse e l'abbandono delle
distruttive politiche di austerità) resta per le finanze italiane il
buco nero degli ottanta miliardi di euro pagati ogni anno per
finanziare il debito in ossequio alla convinzione, folle e criminale,
che lo Stato debba dipendere per il reperimento dei fondi necessari
allo svolgimento delle proprie funzioni (anche di quelle fondamentali
e ineliminabili) dai 'mercati' condannandosi ad accettarne i ricatti
– contro la democrazia e i diritti – e i costi esorbitanti che
questi impongono.
Nulla ovviamente da parte del governo
Berlusconi – Napolitano e dal suo portavoce Enrico Letta
sull'opportunità di trasferire reddito e risorse dai ceti ricchi ai
ceti popolari, per attenuare la condizione di inaccettabile
disuguaglianza in cui vive il nostro Paese, agendo sulla leva
fiscale: con un'imposta sui grandi patrimoni, con il ripristino della
tassa di successione (a cui era favorevole anche il liberale Luigi
Einaudi), sostituendo l'IMU sulla prima casa con qualcosa di simile a
ciò che era l'INVIM (l'imposta sull'incremento dei valori
immobiliari da pagare nel momento in cui vendendo il bene ad un
prezzo maggiore a quello di acquisto si realizza un guadagno).
Lasciamo stare la riallocazione dei
soldi impegnati nella TAV e nell'acquisto degli F35 (persino per 'non
fare' il Ponte di Messina sono stati sperperati centinaia di milioni
di euro) su progetti di reale valore sociale ed economico: roba da
luddisti utopisti nemici del progresso.
Lasciamo stare l'idea di una draconiana
riduzione delle retribuzioni dei dirigenti e manager pubblici e delle
pensioni oltre i centomila euro l'anno: roba da comunisti.
Lasciamo stare la possibilità di
mettere in campo una lotta all'evasione fiscale (stimata in 200
miliardi di euro l'anno) davvero in grado di produrre risultati in
tempi brevi: i paradisi fiscali sono o non sono ammessi e tollerati
dal consesso internazionale o addirittura localizzati all'interno dei
Paesi del G8 e della UE? Uno dei maggiori azionisti del governo
italiano non è quel Silvio Berlusconi condannato in primo grado per
evasione fiscale a cinque anni di reclusione e nonostante questo (o
forse proprio per questo ….) ricevuto con i dovuti onori da
Napolitano persino dopo la conclusione del processo Ruby?
Inutile rammentare l'idea di procedure
semplificate, veloci ed efficaci per la confisca dei capitali
criminali e mafiosi (fatturato annuale di centoventi miliardi,
patrimoni criminali stimati in mille miliardi): roba da sovversivi
giustizialisti come Antonio Ingroia.
E mentre l'accordo con la Svizzera per
un accordo fiscale che consenta di tassare i capitali illecitamente
esportati nelle banche elvetiche resta ancora un lontano miraggio,
rimane - nel novero di ciò che sarebbe assolutamente naturale fare
per reperire risorse per il lavoro e che non verrà mai fatto per
assenza di volontà politica – la lotta alla corruzione.
Un bacino a cui attingere di sessanta
miliardi di euro secondo le stime della Corte dei Conti.
Riconducibili, credo, fondamentalmente
a due filoni.
Quello dei funzionari pubblici infedeli
(membri di assemblee elettive, amministratori pubblici, burocrati,
agenti delle forze dell'ordine, magistrati, agenti delle tasse,
ispettori del lavoro) che patteggiano con soggetti privati
trattamenti di favore e in violazione della legge in cambio di denaro
e 'utilità', a danno della collettività e dell'erario pubblico
(concessione di licenze edilizie, sentenze, omissione di multe,
accertamenti, denunce). .
E quello del sovrapprezzo pagato, a
fronte di pratiche corruttive, dallo Stato e dalle amministrazioni
pubbliche, sia in termini monetari che di minore qualità,
nell'acquisto di beni e servizi e nell'assegnazione di lavori
pubblici.
Per combattere la corruzione
individuale servono norme e procedure trasparenti e non ambigue, non
soggette alla discrezionalità di chi deve applicarle, servono organi
di controllo e di auditing che possano monitorare gli atti dei
funzionari pubblici, un'anagrafe patrimoniale degli eletti e degli
amministratori dello Stato e degli Enti pubblici.
Per combattere la corruzione
nell'assegnazione degli appalti e nell'acquisto di beni e servizi
esiste, a mio avviso, una sola strada: reinserire all'interno delle
pubbliche amministrazioni la produzione di tali beni e servizi.
Perché è fuori da ogni logica pensare
che gli stessi beni e servizi possano costare di meno se forniti da
aziende esterne, che devono essere remunerate per l'attività di
impresa oltre a dover spesso recuperare quanto illecitamente versato
per ottenere la commessa pubblica.
A meno che lo Stato non voglia
tollerare, diventandone complice, paghe da fame, evasione
contributiva, violazione delle norme di sicurezza come sarebbe
possibile che dieci addetti alle pulizie o alla guardiania o dieci
informatici possano costare alle amministrazioni pubbliche di meno se
contrattualizzati attraverso una ditta esterna anziché assunti
direttamente?
Lo Stato - da cui dipendono le forze di
polizia, l'esercito, la Banca d'Italia, la scuola – non sarebbe in
grado di organizzare e far lavorare al meglio i propri dipendenti? La
convenienza di ricorrere a ditte esterne starebbe nella flessibilità
da queste garantita e cioè nessuna assunzione a tempo indeterminato,
impegno contrattuale commisurato alle effettive necessità anche da
un punto di vista temporale? Ma le pubbliche amministrazioni già si
avvalgano in misura abbondantissima della deleteria pratica del lavoro
precario; esistono attività di cui non è pensabile (solo per
indicare qualche esempio: le pulizie, la vigilanza, la manutenzione
degli edifici) poter fare a meno; la creazione di consorzi (diretti
da dipendenti pubblici 'in distacco') tra le amministrazioni
pubbliche coinvolte consentirebbe di garantire le necessarie economie
di scala.
I risparmi conseguiti attraverso la
reinternalizzazione di ciò che è attualmente appaltato a imprese
private ed il contrasto della 'mano morta' della corruzione (con
tutti gli effetti devastanti che essa comporta nell'inquinamento del
mondo delle imprese e dell'economia, della politica, nell'aprire
varchi intollerabili alla criminalità organizzata) consentirebbero
di aumentare la massa dei lavori di pubblica utilità, assorbendo il
personale già impiegato nelle imprese private e fornendo ingenti
nuove occasioni di lavoro, stante le cifre in ballo, per i
disoccupati.
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