C'è un grande equivoco in cui si cade, in buona o cattiva fede, quando si parla della necessità di regole condivise e del reciproco rispetto tra le varie componenti politiche che si contrappongono tra loro.
Parlare di regole condivise significa che gli uni e gli altri si considerano avversari e non nemici, che gli uni e gli altri si impegnano a rispettare con lealtà le regole della competizione elettorale, che gli uni e gli altri riconoscono reciprocamente la legittimità a governare a chi ottenga la maggioranza del consenso popolare a condizione che chi detiene il potere pro-tempore lo eserciti nel rispetto delle leggi fondamentali e dei principi cardine che costituiscono il patto costituente di una comunità nazionale.
In Italia è certo storicamente mancata questa reciproca legittimazione tra le forze in campo: perché i conservatori e la borghesia preferirono affidarsi nel 1922 alla dittatura fascista piuttosto che affrontare politicamente le rivendicazioni ed il crescente consenso dei socialisti; perché nel secondo dopoguerra l'alternativa alla Democrazia Cristiana era rappresentato da un partito, quello comunista, a cui non 'poteva' essere concesso, perché a torto o a ragione considerato una propaggine dell'URSS nemica del mondo occidentale, di guadagnare con le elezioni la guida del governo.
E per impedirlo ci fu chi non si fece scrupolo di utilizzare qualunque mezzo: tenendo sotto scacco la democrazia con i tentativi di golpe (De Lorenzo, Borghese), con la strategia della tensione e le stragi, orientando dietro le quinte lo stesso terrorismo rosso (rapimento Moro), con organizzazioni segrete quali Gladio e la P2 che sovrintendevano alle azioni destabilizzatrici della regolare competizione politica.
Di fatto oggi, caduto il comunismo sovietico, molti muri e steccati sono venuti meno. Se Ferrero e Fini, se Di Pietro e Casini, se Vendola e Bersani, si riconoscono tutti nella Costituzione significa che regole e atteggiamenti condivisi da destra e sinistra esistono, almeno formalmente, almeno apparentemente (e nei limiti del significato che si può ancora attribuire ai concetti di destra e sinistra e all'effettivo ruolo della politica nazionale). E tali principi sono la sovranità del popolo, la divisione dei poteri, l'indipendenza della magistratura e l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la presenza di diritti civili e politici inviolabili, la libera e leale competizione elettorale attraverso i partiti.
Riconoscersi nella Costituzione significa anche attribuire tutti una valore positivo alla Resistenza, alla lotta di liberazione, all'antifascismo e dunque accettare una visione unitaria della nostra identità storica.
Ma il grande equivoco (quello nel quale ad esempio Panebianco cerca di farci cadere con l'invito a comprendere 'Le ragioni degli altri') sta proprio qui: e cioè che la competizione non è oggi tra due opinabili ma legittime visioni contrapposte di sinistra e destra (di cui la compagine finiana che ambisce ad accreditarsi quale forza conservatrice democratica rappresenta ben poca cosa in termini di consenso elettorale) ma tra chi persegue, senza remore ad utilizzare qualunque espediente illecito, un progetto eversivo dell'impianto costituzionale e dell'unità nazionale – la coalizione berlusconiana-leghista - e gli altri.
Ed allora su questo piano valgono tutte le obiezioni che pone Rodotà: “Ma chi mai accetterebbe di sedersi ad un tavolo da gioco insieme ad un baro, al tavolo di un ristorante dove il cuoco è un noto avvelenatore travestito da chef creativo?”. Il fatto che agli eversori affidi tuttora il proprio consenso metà e più del corpo elettorale non è una valida ragione per cercare accordi e reciproche legittimazioni ma al contrario il presupposto per non perdere mai la consapevolezza del pericolo che abbiamo davanti e di quanto sia dura la lotta per sconfiggerlo.
Una lotta che dovrà concludersi non con un qualche compromesso ma, come con il fascismo, con l'annientamento politico del progetto eversore.
Qui non ci sono 'ragioni degli altri' che possiamo ammettere. O loro o noi.
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