DALLA
“BEAT” ALLA “NEET” GENERATION
Saranno forse “non + disposti a tutto” -ricalcando un noto slogan
sindacale- ma i giovani italiani dovranno
al più presto farsi le ossa per crescere
in un Paese di “lupi travestiti d’agnello”, pronti a sbatterli sommariamente sul
banco degli accusati.
Al bando ogni senilismo demagogico
o giovanilismo di comodo, è solare che sia facile scovare, nel mucchio dell’intera
“generazione Y” nata a
cavallo tra gli anni ‘80 e ’90, adolescenti
viziati e menefreghisti, pronti a prendersela col mondo intero pur di non
assumersi le proprie responsabilità; studenti
parcheggiati all’università, che preferiscono vivere di rendita piuttosto
che cercarsi un lavoro; giovani fannulloni
impiegati nella pubblica amministrazione i quali, conquistato il “posto
fisso”, ripongono il minimo impegno nel proprio lavoro.
Di “mele marce” se ne trovano
in qualsiasi paniere: chi fa
politica, anzi, ha meno autorità di chicchessia nel dare lezioni di morale…
Esiste, però,
un’Italia “per bene” di cui andare fieri: una “meglio gioventù”, silenziosa
ma pur sempre maggioritaria, che tutti i
giorni si fa in quattro per formarsi al meglio nelle nostre università, per mantenersi in qualche modo negli studi o per farsi strada nel mondo
del lavoro puntando sulle proprie forze.
È accettabile, allora,
che lo sport nazionale preferito da certi politici -ultimamente praticato
con successo anche dai tecnici- sia
divenuto il “tiro al bersaglio dei giovani”, una gara senza regole ad offendere,
umiliare, bistrattare un’intera generazione (ieri sconsideratamente cresciuta a
“pane e televisione”, oggi maldestramente rabbonita con “bastoni e carote”)?
Il ministro del Lavoro ha esortato i giovani ad “accontentarsi”
nella ricerca di prima occupazione.
Il vero problema, semmai, è che ci si accontenta fin troppo: i più
non sono affatto “schizzinosi”, né nella ricerca del primo né del secondo,
terzo od ennesimo lavoro!
I
dati parlano da soli: il 71% dei giovani under 35 è disponibile ad accettare
qualsiasi lavoro, purché remunerato (fonte Cisl), mente il 25% dei laureati si è adatto
benissimo a svolgere un’occupazione con bassa o nessuna qualifica oltre il 30% svolge un’occupazione del tutto diversa
da quella per la quale ha studiato (fonte
Bankitalia).
Chiedere quantomeno d’essere
pagati, fosse anche per il
più umile mestiere, vuol forse dire esser “choosy”?
Liquidare il problema dei giovani senza
lavoro con un “vadano a scaricare le
cassette al mercato” (alias Renato Brunetta), poi, è quanto di più banale e demagogico si possa affermare.
Qual è la funzione della Politica?
Preparare sommessamente i giovani “al peggio” oppure tentare di offrir loro opportunità, ricercando
qualsiasi soluzione per sciogliere i nodi e lacciuoli che legano il mercato del
lavoro e bloccano l’economia?
Invitarli a competere con la manodopera rumena e la
manovalanza tunisina o stimolarli a misurarsi con i giovani ingegneri indiani e
i nuovi imprenditori cinesi?
Se s’inculca nei giovani la convinzione che il lavoro
serva soltanto a guadagnarsi da vivere e “portare
a casa lo stipendio”, non anche a realizzarsi e mettere in campo le
proprie capacità, come stupirsi del
fatto che i laureati diminuiscono sempre di più, mentre crescono gli inattivi e
gli sfiduciati?
Se s’inibisce
nei giovani finanche la capacità di sognare un futuro migliore, che ne sarà di loro?
L’impressione è che, dietro queste ripetute
“gaffe”, si celi una strategia ben mirata: la ricerca dell’“alibi perfetto” per sottacere le gravi responsabilità
di un’intera classe dirigente nell’affrontare i problemi della mancanza di
occupazione, crescita e sviluppo, che certo non dipendono solo da fattori
esogeni (l’assenza di un’Europa politica, la crisi finanziaria internazionale o
la congiuntura economica sfavorevole).
Un esempio
chiarificatore?
Tra il 1999 ed il 2007 l’Italia ha
beneficiato del c.d. “dividendo dell’euro”, ovvero di bassi tassi d’interesse sul debito pubblico che hanno consentito di risparmiare centinaia
di miliardi (secondo alcuni economisti, addirittura “100 miliardi” di euro
all’anno).
Un enorme “tesoretto”
che, se oculatamente speso in politiche d’investimento e affiancato da riforme
strutturali, avrebbe consentito all’Italia di essere tra i paesi più virtuosi d’Europa,
piuttosto che tra gli stati “pigs” citati come modello negativo persino nella
campagna elettorale americana.
Di chi la responsabilità se l’Italia negli
anni Duemila ha “dilapidato” queste risorse?
Se in capo ad
ogni italiano grava un debito pubblico di oltre “30.000 euro”, in termini
assoluti il terzo al mondo (tra il 1950 e il 1969 la media del debito pubblico
in rapporto al Pil era del 30%, oggi ha sfondato quota 126%)?
Se la spesa
pubblica è lievitata a dismisura (nel 1950 si attestava sotto il 25% in
rapporto al Pil, oggi supera il 50%)?
Se la pubblica
amministrazione è divenuta un ente erogatore di stipendi, piuttosto che di
servizi (Sicilia docet)?
Se il nostro
regime tributario è il più opprimente al mondo (nel 1951 la pressione fiscale
era del 18,2%, oggi supera il 55%)?
Se i costi del
lavoro e dell’energia sono nettamente più alti della media europea?
Se le ultime grandi
imprese italiane (vedi la Fiat) e le poche multinazionali straniere presenti (vedi
l’Alcoa) pagherebbero penali pur di delocalizzare?
Se la corruzione
ci costa “60 miliardi” di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale il doppio?
Di chi la responsabilità se l’Italia
si è ridotta ad un Paese “a corto di futuro”, con il cappio al collo del debito e la pistola dei mercati alla
tempia?
Tutto questo è forse imputabile ai giovani che solo oggi si affacciano
sul mercato del lavoro, magari illusi che il mondo reale non fosse poi così
distante da quello rappresentato da “mamma Tv”?
È colpa dei giovani italiani se un loro coetaneo su tre è senza lavoro?
Se la loro generazione è divenuta “precaria” per antonomasia?
Se l’ingresso nel mercato del lavoro solitamente passa attraverso la scorciatoia
obbligata di un’occupazione in nero e senza tutele?
Se il mondo delle professioni è chiuso a camera stagna da caste
autoreferenziali, mentre il mercato del lavoro è drogato dal precariato?
Se gli stipendi degli italiani sono in media i più bassi d’Europa, per
molti insufficienti a garantire una piena indipendenza economica dalla famiglia
d’origine?
Se molti di loro -i migliori o i più audaci- preferiscono scappare all’estero
piuttosto che accontentarsi di un lavoro tanto dequalificato quanto malpagato?
Su un punto ha
perfettamente ragione il viceministro Martone: essere giovani in Italia vuol
dire aver ricevuto in dote dalla sorte una “sfiga” pazzesca!
A chi il compito di indicare una qualche
via d’uscita, “una luce in fondo al tunnel”?
A una classe politica “novecentesca”, la
stessa che fin oggi ha scavato la fossa sotto i piedi dei propri figli?
Ad un governo tecnico -il più sobrio degli ultimi 150 anni- che, definendo
“perduta” la generazione dei 30/40enni (alias Mario Monti), ha già giudicato spacciati un quinto dei
cittadini che rappresenta?
Che futuro può avere un Paese che,
piuttosto che riconoscere i giovani come un “organo vitale” del Sistema, li
liquida sbrigativamente come un “arto
in cancrena” da amputare per salvare il resto del Corpo sociale?
Trovi il testo completo del dossier “Gioventù
bruciata” sul blog Panta Rei:
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