Ogni Paese, ogni Comunità Nazionale nutre la propria identità, alimenta il senso di appartenenza dei suoi membri, i cittadini, ad essa attraverso simboli, miti, memorie e valori condivisi.
Si parla al riguardo di religione civile, intesa (De Luna) come “uno spazio pubblico condiviso nel quale ritrovare valori che legittimano le istituzioni, la competizione politica, il senso civico dei cittadini.”
I nostri valori sono quelli affermati nella Costituzione Repubblicana: la democrazia, il diritto al lavoro, alla salute ed al pieno dispiegamento della propria personalità, la libertà unita alla giustizia sociale e solo da questa resa possibile, l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, la cultura e la scuola pubblica, la tutela del patrimonio artistico e paesaggistico del Paese.
Nella realtà si tratta di valori che, ancorché sanciti nella nostra Legge Fondamentale, non costituiscono il patrimonio di tutti gli italiani. Per ragioni storiche, ideologiche, culturali, economiche, sociali, per l'invadente influenza della Chiesa cattolica che pretende dai suoi fedeli di anteporre i propri dettami a quelli delle norme statali. Perché lo Stato è percepito, spesso a ragione, nelle sue strutture inefficienti e corrotte come un nemico: lo stato ottocentesco della tassa sul macinato, quello attuale di Equitalia e della casta partitocratica. Per le effettive condizioni di vita degli italiani dove ad un quarto dei cittadini che vive nella voragine della povertà o ai margini di essa e dunque impossibilitati ad esercitare i propri diritti di cittadinanza si accompagna un'area enorme, dal punto di vista sociale ed economico, che si nutre dell'illegalità: mafie, corruzione, evasione fiscale, criminalità economica, abusi edilizi, violazione di norme ambientali e sulla sicurezza sul lavoro.
Di fronte a tutto questo pensare di riunificare il Paese nel nome di comuni valori, come hanno tentato di fare soprattutto i due ultimi Presidenti della Repubblica, Ciampi e Napolitano, solo attraverso i simboli della bandiera e dell'inno nazionale, invocando il rispetto per le Istituzioni ed il dialogo tra le forze politiche, è un inutile e vuoto esercizio retorico. Tanto più in una situazione in cui metà e oltre dello schieramento politico fonda la propria azione sull'illegalità del conflitto di interessi e insultando le istituzioni (Berlusconi) o sul proposito di spezzare l'unità e la solidarietà nazionale (la Lega).
I valori costituzionali che dovrebbero costituire il collante della nazione non vanno declamati ma attuati e testimoniati per renderli vivi nel cuore delle persone.
Ed allora celebrare la festa della Repubblica, nell'anniversario del referendum popolare che mise fine alla monarchia, con una parata militare (che il Presidente Scalfaro aveva abolito anche per ragioni economiche) e dall'alto del palco delle autorità è un grave errore ed un tradimento dello spirito costituzionale.
Sono i reparti militari, il messaggio di morte di cui inesorabilmente sono portatori, il simbolo supremo dell'identità nazionale oppure la festa della Repubblica dovrebbe essere vissuta come festa di popolo con manifestazioni nelle scuole, con concerti nelle piazze, con mostre d'arte o nelle oasi naturalistiche, onorando gli uomini e le donne che hanno fatto la nostra storia, con concorsi che premino la creatività e l'impegno nei campi dell'arte, della solidarietà sociale e dell'economia?
In un Paese in cui non ci sono più i soldi per la carta igienica nelle scuole o per la benzina delle volanti della polizia, quella decina di milioni di euro che costa la parata militare potrebbe essere più utilmente utilizzata per realizzare asili, finanziare case famiglia, mettere in sicurezza le scuole, finanziare progetti di ricerca o restauri di antichi monumenti. Questo sarebbe il modo migliore per testimoniare i valori costituzionali, per restituire allo Stato il ruolo di Entità al servizio della collettività e per non continuare a farlo sentire come un oggetto distante e ostile.
La parata militare implica poi una certa idea delle forze armate, totalmente sbagliata e fuori dal tempo, non come 'male necessario' ma di cui va lusingato e coltivato l'orgoglio bellicistico e guerresco (che certo ha trovato nuova forza ed alimento nelle azioni di guerra all'estero ipocritamente definite 'missioni di pace').
Quello spirito per cui vanno retoricamente onorati, con il lutto nazionale e i minuti di silenzio nelle manifestazioni pubbliche, i militari caduti sul campo ma non quelli uccisi dalla contaminazione dell'uranio impoverito o i tanti cittadini vittime di incidenti sul lavoro.
Forze armate che dovrebbero trasformarsi al contrario da corpo separato dello Stato in istituzione pienamente integrata nel popolo, di cui sia espressione ed al cui servizio si ponga.
E qui bisogna ricordare un altro degli errori storici del centrosinistra: l'abolizione della leva militare. E' evidente che nell'esercito ipertecnologico dei nostri giorni aveva ben poco senso la 'naja' come addestramento militare ma essa costituiva comunque un'occasione di incontro di giovani di tutte le parti d'Italia, rispondeva al principio costituzionale della difesa della patria come dovere inviolabile del cittadino. Per provare a dare alle Forze Armate il tratto distintivo di esercito popolare sarebbe dunque necessario ripristinare, accanto ai militari di professione, una qualche forma di coscrizione obbligatoria estesa a uomini e donne, a metà tra servizio civile ed insegnamento all'uso delle armi, da realizzarsi per brevi periodi nel corso di una pluralità di anni.
Qualcosa di completamente diverso, nello spirito, dalla mini-naja tanto cara a La Russa che è una mera operazione di marketing dei disvalori della guerra e delle armi.
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