La crisi del sindacato e in particolare della CGIL è l'altra faccia della crisi della sinistra. La subalternità culturale che ormai hanno assunto i temi del lavoro, del progresso e della giustizia sociale rispetto ai modelli imposti dal pensiero dominante (televisivo). Lo statuto dei lavoratori del 1970 è stato forse il punto più alto raggiunto nell'affermazione dei diritti dei lavoratori. Da allora in poi il Sindacato ha giocato solo in difesa, lasciando per strada, mano a mano, molte delle conquiste ottenute. Penso ad alcuni fenomeni, fatti, eventi concreti e simbolici che hanno scandito e determinato la progressiva marginalizzazione della visibilità del mondo del lavoro: il terrorismo e il riflusso nel privato con il conseguente abbandono dell'impegno sociale, la marcia dei quarantamila alla Fiat, l'accordo sulla scala mobile firmato nel 1984 da Craxi con UIL e CISL e la successiva sconfitta nel referendum, la delocalizzazione e la globalizzazione che hanno reso disponibile su base mondiale quell' 'esercito di riserva' preconizzato da Marx, la precarizzazione del lavoro (scelta condivisa dal maggiore partito della Sinistra) , le continue concessioni in materia pensionistica a cui non ha fatto riscontro alcuna contropartita sociale, la progressiva e inesorabile perdita del valore d'acquisto di salari e stipendi. Di contro le gerarchie sindacali non hanno perso alcuno dei propri privilegi trasformando di fatto i sindacati in società di servizio che vendono alle imprese (e al governo di volta in volta al potere) l'acquiescenza dei lavoratori in cambio di vantaggi e favori.
Qual è l'errore fatale del sindacato? Credere, o far finta di credere, che i propri interlocutori principali siano ancora le aziende e gli imprenditori. Agisce ancora in una logica da anni cinquanta e sessanta, padrone e operai. Ma la realtà è cambiata e la trattativa con le aziende è spesso una lotta contro i mulini a vento. La globalizzazione rende disponibile lavoratori a basso costo in Italia e all'estero pronti a lavorare senza coperture sociali e assicurative, le tecnologie attuali consentono con facilità il trasferimento di interi cicli produttivi o di parte di essi in qualunque altra parte del mondo (o quantomeno a qualche centinaia di chilometri nei paesi dell'ex blocco sovietico) e le aziende italiane spesso non sono altro che assemblatori di semilavorati provenienti da paesi terzi. Quale potere contrattuale si può avere nei confronti di multinazionali che da un giorno all'altro, quando le condizioni politiche, economiche e sindacali non siano più convenienti, sono in grado di chiudere la propria filiale e trasferire la produzione in un altro Paese? Quale potere contrattuale si può avere nei confronti di micro-aziende che nascono e muoiono con velocità impressionante in nome della flessibilità produttiva? Quale potere contrattuale si può avere quando in una stessa azienda convivono lavoratori che sono regolati da contratti e condizioni di lavoro diversi o addirittura con le esternalizzazioni e gli appalti la produzione è affidata a personale non dipendente dell'azienda? Quale potere contrattuale si può avere quando si vive sotto il ricatto della perdita del lavoro ed allora in nome della conservazione dell'occupazione si è costretti ad accettare tutto: la moderazione salariale, condizioni di lavoro non dignitose, l'assenza omicida delle regole di sicurezza?
C'è poi il tema, assolutamente non secondario, dell'economia criminale e della corruzione pubblica che incide in modo tragicamente straordinario nelle condizioni di vita del cittadino lavoratore con la negazione di opportunità e diritti, impedendo il riconoscimento del merito, condannando intere regioni d'Italia al sottosviluppo.
Il sindacato mantiene ancora potere in quelle realtà economiche e produttive protette che non agiscono in regime di libera concorrenza a livello internazionale. Non per la propria forza ma per l'assenza di interesse da parte degli oligarchi che guidano tali aziende a spingere sull'acceleratore delle riduzioni dei costi, per la loro riluttanza ad alzare pericolosi polveroni. Ed è comunque una forza ed un potere del sindacato che anche qui non va più a vantaggio dei lavoratori ma essenzialmente al mantenimento e riproduzione delle proprie organizzazioni.
Cosa dovrebbe fare il sindacato per ridare forza ai lavoratori? Rivolgersi all'unico interlocutore che oggi può agire per determinare le condizioni di vita dei lavoratori: la Politica. Agire almeno da lobby, così come la Confindustria o la ConfCommercio o le associazioni dei tassisti, con la consapevolezza di essere la più potente sul piano elettorale. E' la Politica che può dare risposte su quelli che sono i bisogni e le richieste fondamentali del mondo del lavoro: la redistribuzione del reddito attraverso un'equa politica fiscale, l'aumento effettivo del potere di acquisto di salari e stipendi grazie a politiche antitrust e di intervento pubblico sui prezzi dei beni 'vitali' come la casa, quelli di prima necessità, le utenze telefoniche, di energia elettrica e gas, il miglioramento delle condizioni di vita attraverso servizi pubblici efficienti e di alta qualità (la scuola, la sanità, i trasporti) di cui i lavoratori sono i primi fruitori, la formazione permanente, la sicurezza sul lavoro, il contrasto radicale alla criminalità organizzata e alla corruzione.
E' la Politica che può e deve dare risposte in termini di sicurezza sociale, è la Politica che può e deve trattare con le aziende anche multinazionali usando le leve fiscali e dei contributi pubblici alle imprese.
Certo non mancano ora i rapporti tra politica e sindacato, ma sono rapporti non improntati alla trasparenza, non espliciti e diretti. Ad una pretesa e ipocrita autonomia del sindacato fanno riscontro trattative sottobanco, posizioni e atteggiamenti pubblici solo in funzione dei rapporti tra caste politiche e caste sindacali. Basti pensare alla CGIL che con il centrosinistra al governo abbandona regolarmente la propria attitudine alla lotta per i diritti dei lavoratori.
La 'passività' del sindacato quale soggetto politico o almeno l'inefficacia della sua azione (in primis il tema dell'evasione fiscale) è tanto più grave tenendo conto delle enormi potenzialità di cui dispone. Milioni di iscritti, il contatto diretto con uomini e donne in carne ed ossa attraverso i propri rappresentanti aziendali, la capillarità della propria presenza sul territorio con i patronati e i centri di assistenza fiscale, la capacità di mobilitazione che ancora riesce ad esprimere (ne sono esempi emblematici le manifestazioni del primo maggio). Il sindacato potrebbe disporre anche di rilevanti risorse economiche, risorse destinate ad aumentare con il coinvolgimento nella gestione dei fondi pensione. Com'è possibile che il sindacato fino ad ora non abbia, ad esempio, ritenuto necessario entrare nel mondo dell'informazione, settore vitale per contrastare la subalternità culturale del mondo del lavoro? Basterebbe la partecipazione a iniziative come Pandora Tv o almeno l'invito ai propri iscritti a contribuire alla nascita di una tv libera …
Il Sindacato esca dunque dall'ipocrisia, prenda esempio dai legami tra sindacati e grandi socialdemocrazie europee, si faccia promotore esso stesso di una grande alternativa di governo nel quale possa essere determinante nella definizione dei temi dell'azione politica, non si limiti ad essere solo un trampolino di lancio attraverso cui i suoi dirigenti vengono cooptati alle cariche politiche e di governo.
E se oggi c'è chi propone di dare vita ad una nuova organizzazione di rappresentanza dei lavoratori che tenti di infrangere il monopolio di CGIL, CISL e UIL, perché non pensare allora ad un'iniziativa più efficace: un coordinamento, trasversale ai sindacati esistenti, di iscritti e quadri che vogliano lottare per scuotere e svegliare dal torpore il mondo del lavoro, rimetterlo al centro della discussione politica e porre di nuovo i sindacati al servizio dei lavoratori e dunque dell'intero paese?
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