E' stata rievocata qualche giorno fa
dall'emerito professor Monti la bella frase attribuita a De Gasperi
“un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle
prossime generazioni”.
Il messaggio che il vanitoso Monti ha
voluto trasmettere è evidente: non giudicatemi per gli insuccessi di
oggi, la recessione e lo spread, ma per come potrà essere in futuro
l'Italia a seguito dei miei provvedimenti.
E d'altra parte quella frase
suggerirebbe una serie di riflessioni sulla democrazia – la volontà
popolare, la partecipazione, il consenso, la scelta delle classi
dirigenti – che in questa occasione mi risparmio di svolgere.
Mi preme invece ragionare, proprio
ispirato da quella frase, su di una cosa di cui da tempo si blatera
tanto: di futuro delle prossime generazioni e dell'eredità da
lasciare loro.
Anzitutto non si può non evidenziare
il carattere mistificatorio e truffaldino della contrapposizione tra
giovani e vecchi, tra presente e futuro, tra i sacrifici da fare ora
per assicurarsi un domani radioso. Come se la politica non avesse il
compito di operare per i bisogni attuali di tutti i cittadini, anche
se certo con una visione strategica e con l'idea di costruire, senza
dogmatismi, un determinato progetto di società, e come se ci si
potesse illudere che quei diritti e la soddisfazione di quei bisogni
che oggi vengono negati si potrà poi garantirli in futuro.
E poi di quale eredità stiamo
parlando?
Se ci riferissimo a singoli individui o
a gruppi familiari, penseremmo a quel patrimonio di affetti, di
valori, di strumenti culturali ed educativi che consentono di
interpretare e fronteggiare il mondo che ci circonda, a cui unire se
possibile beni propriamente economici quali la proprietà di cose o
aziende.
Se parliamo di un popolo, quale eredità
più importante dell'integrità dell'ambiente e del paesaggio da
lasciare alle generazioni future unitamente al complesso, da salvaguardare gelosamente, di beni artistici ed archeologici retaggio della propria
storia, ad un sistema scolastico e universitario includente ed in
grado di incoraggiare e non disperdere i talenti individuali, alla
capacità di sviluppare ricerca scientifica e tecnologica di alto
livello e rivolta al miglioramento della qualità della vita di
tutti, ad una burocrazia efficiente ed imparziale, ad un sistema politico
che consenta di selezionare classi dirigenti oneste e capaci che riescano ad
esprimere effettivamente la volontà popolare, ad una coesione sociale
fondata su differenze di censo tollerabili e che fornisca a ciascuno
quanto necessario per il pieno sviluppo della propria personalità e
l'effettiva partecipazione all'organizzazione politica, economica e
sociale del Paese?
Sono questi i principi fondanti della
nostra Costituzione. Sono queste le cose che rendono ricca una
Nazione e ne assicurano il futuro e non certo elementi evanescenti e
contingenti – al più secondari o mere conseguenze del suo stato di salute - quali spread,
competitività, crescita, compatibilità finanziarie.
Questi temi sono tragicamente
riproposti dalla vicenda dell'ILVA di Taranto nella quale emergono i
ritardi culturali e la visione distorta se non disonesta della
maggioranza degli operatori economici, dei sindacati, dei tecnici di
governo, dei partiti.
E' questa l'economia da lasciare alle
generazioni future in cui si baratta il lavoro con la vita e la
salute delle persone?
Non dovrebbe essere, anziché lo
spread, l'espressione 'riconversione ecologica dell'economia' al
centro della riflessione di tutte le forze politiche e dei
commentatori?
Ma questo richiederebbe di riconoscere
che non è il mercato che da solo può creare lavoro, ricchezza,
qualità della vita e che si dovrebbe ripensare nel suo complesso il
sistema dei rapporti economici e sociali così come sono definiti
nella nostra epoca.
Forse non è ancora il tempo perché
ciò avvenga ma forse non è nemmeno così lontano.
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