La vita è fatta di priorità: così
dice o diceva (non so se viene ancora trasmesso) l'ammiccante spot
del gelato Magnum Algida.
E lo stesso vale per la politica e
l'economia.
L'economia è, dovrebbe essere,
l'impiego di risorse scarse per la soddisfazione dei bisogni umani e
dunque impone sempre delle scelte su quali necessità sia opportuno
privilegiare e quali altre considerare secondarie. E la politica, in
quanto governo della società, si fonda anch'essa sul dovere di
individuare gli obiettivi da perseguire prioritariamente, in un
contesto definito da un lato dalle risorse disponibili e dall'altro
dai principi e valori etici su cui si fonda la convivenza civile e
che definiscono il bene comune.
Per l'ineffabile duo Giavazzi e Alesina
la priorità è la crescita ed in funzione di questa, come scrivono
nel loro ultimo editoriale
di domenica 23 settembre sul Corriere della Sera, bisogna ridurre le
spese dello Stato sociale – pensioni, sanità, scuola pubblica –
per diminuire il fabbisogno finanziario pubblico e dunque le tasse e
con ciò favorire la crescita.
Concetti già espressi da Mario Draghi:
lo Stato sociale europeo è morto perché costa troppo mantenerlo a
causa delle trasformazioni demografiche che si sono verificate in
Europa ed anche in Italia. Troppi vecchi a cui pagare le pensioni e
per troppo tempo, troppi vecchi da curare e i vecchi hanno bisogno di
maggiori e più costose cure.
Ora intanto è tutto da dimostrare che
un Paese che lasci campo libero al far west sociale (meglio la
Germania e i Paesi scandinavi fondati sul welfare o gli Stati Uniti?)
e comunque sulla liberazione delle dinamiche del mercato anziché
sull'intervento pubblico, secondo le teorie keynesiane, sia più
idoneo a favorire la crescita o quantomeno una crescita virtuosa. Ma
soprattutto la crescita, concetto discusso e discutibile per chi
apprezza Maurizio Pallante e Paolo Cacciari ma contestato,
addirittura oltre quarant'anni fa, anche da Robert Kennedy (cfr. il
video aggiunto alla fine del post), non può essere in sé
considerato il fine ultimo di un consesso sociale. Al massimo può
essere definita un mezzo o una condizione per incrementare la
ricchezza materiale collettiva da redistribuire eventualmente in base
ai principi che si ritengono equi e per consentire di far fronte alle
funzioni fondamentali dello Stato e tra queste appunto le pensioni,
la scuola e la sanità.
E' evidente che le trasformazioni
demografiche – l'allungamento della speranza di vita e l'età media
della popolazione – impone una rimodulazione ed un efficientamento
delle spese sociali. Ma è tutto da definire in quale misura e con
quali obiettivi finali. Si può appunto continuare a considerare una
priorità sociale assicurare a tutti la certezza di essere curati
(chiedendo di partecipare in misura proporzionalmente maggiore alle
spese a chi più ha) e di godere della pensione in età utile a
godersi in buona salute la vecchiaia (sapendo che la speranza di vita
è diversa per chi ha svolto certi tipi di lavoro – l'operaio in
fonderia o alla catena di montaggio ad esempio - rispetto a coloro
che hanno ricoperto altri ruoli quali quelli di professore
universitario, di politico, di alto burocrate, di manager), cercando
di intervenire sia dal lato dell'offerta di risorse (ricerca
scientifica e tecnologica, allargamento della popolazione attiva) che
da quello della domanda di servizi sociali e dei relativi costi
(riduzione degli sprechi, imposizione di un tetto massimo agli
importi delle pensioni, prevenzione per ridurre l'insorgere delle
patologie).
Tralasciando qui i ragionamenti
sull'opportunità più in generale di una vera revisione della spesa
che tagli gli stanziamenti per le spese militari, il sovvenzionamento
abnorme della politica, le grandi opere inutili oltre che rimettere
in discussione le modalità di finanziamento del fabbisogno dello
Stato per trovare alternative alla dittatura dei mercati, si deve
dare per scontato che sia ineluttabile ridurre le pensioni (il valore
di quelle medio-basse e gli anni di erogazione) e la copertura
sanitaria oppure sarebbe più giusto ed utile cominciare dal porre
fine all'ingiustizia delle pensioni d'oro (100 mila privilegiati che
comportano 13 miliardi di euro di spesa all'anno per la collettività
secondo i calcoli pubblicati sul blog
di Beppe Grillo) e dal contrasto alle degenerazioni, agli
sprechi, alla corruzione nella conduzione della sanità pubblica,
assicurando la qualità dei servizi offerti insieme al contenimento
dei costi nei limiti della ragionevolezza? Per Gino Strada, solo per portare un esempio, un
intervento di sostituzione mitralica costa 20,000 euro in un ospedale
pubblico e 1800 euro in una struttura di Emergency. Cosa si aspetta
ad abbandonare la pratica deteriore delle nomine politiche nelle ASL
e negli ospedali e perché non pensare all'autoproduzione nelle
strutture pubbliche di farmaci e di presidi sanitari? Quali risparmi
potrebbero derivare dall'adozione di innovative soluzione
organizzative (si è parlato di privilegiare la cura domiciliare al
ricovero ospedaliero, di somministrazione di farmaci nella quantità
effettivamente commisurata alle necessità terapeutiche, di
prescrizione di farmaci palliativi al paziente sano che 'pretende' la
ricetta solo per essere tranquillizzato)? E soprattutto facendo reale prevenzione per ridurre incidenti sul lavoro, quelli derivanti dalla circolazione stradale, i danni derivanti dall'inquinamento, da una cattiva alimentazione e dall'uso di droghe, alcool, fumo e dall'abuso di farmaci. Prevenzione che si realizza attraverso la giustizia e la sicurezza sociale, la tutela dell'ambiente, la promozione della cultura, il riconoscimento a ciascun individuo della possibilità di realizzare appieno la propria personalità e le proprie attitudini.
Oppure come fanno Giavazzi e Alesina si
taglia tutto in nome della crescita (cioè del profitto) e di una
pelosa razionalità ed equità riducendo drasticamente la platea dei
beneficiari dello Stato sociale?
Ma come si definisce una persona
abbastanza ricca per togliergli il diritto alla sanità gratuita
quando esistono condizioni patologiche e tipologie di interventi
chirurgici (la disabilità, i tumori, le malattie mentali, i
trapianti di organo, l'alzheimer per fare alcuni esempi) che in
assenza di una copertura da parte del servizio sanitario nazionale
condurrebbero inevitabilmente alla miseria un individuo e la sua
famiglia?
E come si fa a considerare le
assicurazioni sanitarie private che in quanto fondate sul profitto
non estendono la propria copertura a chi supera una certa età ed a
chi è stato colpito da malattie gravissime, croniche, incurabili
un'alternativa ad un sistema che possa proteggere universalmente
tutti gli individui a partire dai più bisognosi di cure?
A chi conviene risparmiare
ipoteticamente mille euro di tasse all'anno per spenderne altrettanto
in assicurazioni sanitarie private salvo venire lasciato al proprio
destino quando non sia più un buon cliente?
E' un folle Obama, e coloro che l'hanno
votato attratti dalle sue promesse, a porre nella realizzazione di un
servizio sanitario nazionale accessibile a tutti la premessa per
rendere la società americana più giusta e solidale? (Che poi non
l'abbia realizzato è un altro discorso …).
Premesso che i ricchissimi
difficilmente si fanno curare nelle strutture pubbliche ed invece
abitualmente ricorrono a cliniche private di lusso magari in Svizzera
o negli Stati Uniti, rendere la sanità pubblica un sistema solo per
i poveri non avvantaggia come detto i ceti medio-alti (coperti dalle
assicurazioni private solo finché restano sani determinando
un'ulteriore fattore di precarietà e di paura del futuro) e
determina la creazione di una sanità di serie B, priva di risorse
adeguate, di strutture di eccellenza, di economie di scala, della
possibilità di fare ricerca.
Analogo ragionamento può essere fatto
per l'istruzione: farne pagare completamente il costo alle famiglie
degli studenti, salvo il caso di giovani meritevoli ma poveri,
significa sancire una condizione di inappellabile disuguaglianza tra
i cittadini di pari capacità e merito. Le famiglie ricche
continueranno a garantire al massimo livello possibile l'istruzione
dei propri figli, anche se non particolarmente dotati, nella certezza
di poterli inserire nei propri studi professionali, nelle proprie
imprese, negli alti gradi della pubblica amministrazione forti delle
proprie relazioni e contatti, mentre per tutti gli altri la decisione
di proseguire gli studi diventerebbe un azzardo rischioso, una scelta
di vita angosciante.
Facendo disperdere talenti e capacità
che magari hanno solo bisogno di tempo e di serenità per potersi
realizzare appieno.
C'è un ultimo aspetto aberrante nei
ragionamenti di Giavazzi e Alesina. L'assenza del riconoscimento
dello status di cittadino che ha il diritto di pretendere proprio in
quanto cittadino servizi pubblici efficienti e di qualità e che
questo diritto sia vincolato solo al fatto di avere un rapporto di
tipo privatistico con l'erogatore del servizio (la scuola a cui pago
la retta, il comune da cui posso pretendere che sistemi le strade e i
marciapiedi a fronte del pagamento dell'IMU, l'erogatore del servizio
sanitario a pagamento).
Vale la pena di rinunciare alle
sicurezze sociali (sia chiaro che si parla di sicurezze teoriche
perché la realtà italiana è già ora totalmente insoddisfacente
essendo la gratuità, l'eccellenza e l'estensione dei servizi
sociali, sanciti dalla Costituzione, negati dall'imbastardimento,
dalla corruzione, dal degrado del sistema pubblico) per la crescita
nella speranza che questa possa realizzarsi attraverso il risparmio
di qualche centinaia di euro l'anno di tasse per il contribuente
medio (e naturalmente, anche se Giavazzi e Alesina non lo dicono, di
milioni di euro per i ricchi)?
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