Dunque Marchionne ha finalmente fatto
vedere le carte che aveva in mano e svelato il suo bluff: il
programma Fabbrica Italia, venti miliardi di euro da investire nelle
industrie Fiat in Italia, era solo un inganno a cui hanno potuto
abboccare o far finta di abboccare solo gli allocchi e le persone in
mala fede.
Tra questi, ciascuno è libero di
scegliere come collocarli tra le due categorie, Mario Monti, Fassino,
Renzi, Chiamparino, Ichino, Sacconi, Bonanni e Angeletti (con la
pavida e complice Camusso a tenergli il gioco) e molti altri.
Tra coloro che invece avevano compreso
e denunciato da subito l'inganno ne cito due: Guido
Viale e Giulietto
Chiesa.
Una sceneggiata che ha fornito
dolosamente il pretesto per portare un ulteriore attacco letale ai
principi su cui si fonda una avanzata civiltà del lavoro – tempi e
condizioni di lavoro compatibili con la dignità umana, le libertà
sindacali, il contratto nazionale - ed è solo grazie alla resistenza
della Fiom di Landini, Ariaudo e Cremaschi ed al coraggio degli
operai di Pomigliano
d'Arco e Mirafiori se i diritti dei lavoratori, di tutti i
lavoratori, richiamati dalla Costituzione non sono stati
completamente travolti.
Correttamente, mi sembra, Massimo
Mucchetti sul Corriere della Sera smonta le argomentazioni e le
giustificazioni che Marchionne nell'intervista
a Ezio Mauro ha addotto per spiegare il cambio di strategia: che il
mercato dell'auto fosse in crisi perché la domanda di nuove
autovetture non è più e non può essere più quella del passato lo
si sapeva da anni e la congiuntura economica attuale ha solo
accentuato un trend già in atto; la scelta della Fiat, a differenza
dei propri concorrenti, di non investire su nuovi modelli di
automobile ha accentuato il calo di vendite e la perdita di quote di
mercato in Italia e in Europa; non è vero che la Fiat è andata ed
è diretta verso una sempre maggiore internazionalizzazione: di fatto
ha sempre più la testa ed il corpo radicato negli Stati Uniti
mentre il crollo del mercato italiano non giustificherebbe la
chiusura degli stabilimenti se l'azienda fosse in grado di produrre
automobili di qualità tali da poter alimentare in quantità adeguate
le esportazioni.
D'altronde Marchionne e gli eredi della
famiglia Agnelli, come sostiene Monti, fanno il proprio mestiere e
vanno dove li porta ciò che hanno all'altezza del cuore: il
portafogli.
Marchionne è un finanziere e non un
industriale ed oggi è più facile fare profitti con la finanza che
con l'industria: si guadagna non con i dividendi ma con le
speculazioni di borsa sulle azioni, con i lauti onorari di
amministratori e presidenti di Società, andando a produrre dove il
lavoro costa meno e si ricevono sovvenzioni dagli Stati per
impiantare, finché le condizioni saranno favorevoli, nuovi
stabilimenti.
Come in Serbia
con operai pagati poco più di 300 euro al mese e i soldi a fondo
perduto concessi dal governo di Belgrado.
Questo è il mercato o quello che
chiamano il mercato.
Ora la risposta, per l'Italia,
spetterebbe alla politica. Incontrare Marchionne per 'capire'
restando però passivi spettatori, come intendono fare Monti, la
Fornero e Passera, delle decisioni e delle convenienze dell'impresa.
Oppure intervenire per salvaguardare il lavoro, l'interesse
nazionale, la struttura produttiva del Paese così come fanno le
Nazioni emergenti, la Serbia appunto ad esempio, o quelle sviluppate
come gli Stati Uniti di Obama che hanno ottenuto il salvataggio della
Chrysler, proprio attraverso Marchionne, con i soldi pubblici.
Secondo la CGIA di Mestre alla Fiat
sono andati 7,6 miliardi di euro di fondi pubblici negli ultimi
trent'anni dei quali solo 6,2 miliardi investiti in attività
produttive. Non so se è un dato attendibile: a naso mi sembra
sottostimato soprattutto se si pensa che dietro il boom della Fiat
del dopoguerra vi è stata la scelta dello Stato italiano di
privilegiare il trasporto, di merci e di persone, su gomma a
svantaggio di quello via mare o via treno. E dunque la costruzione di
infrastrutture, strade ed autostrade anziché ferrovie e
metropolitane, per sostenere il boom dell'automobile. Se a questo
dato si aggiunge l'aggravio per i conti dello Stato che deriverebbe
dall'ulteriore ridimensionamento della presenza Fiat in Italia –
cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, chiusura delle imprese
dell'indotto, minori entrate fiscali - vi sarebbero i presupposti
morali, giuridici e politici e la convenienza economica per
nazionalizzare le fabbriche Fiat, affidandone la gestione agli operai
stessi in forme cooperative, e riconvertile a produzioni
ecologicamente compatibili, come propongono Viale
e Pallante,
ed in funzione di un piano nazionale dei trasporti (mezzi di
trasporto collettivo, auto elettriche) e ridando nel contempo lustro
alla gloriosa Alfa Romeo colpevolmente mortificata ed annichilita,
per strategie suicide e miopi, dal management Fiat.
Se persino la Camusso chiede che lo Stato acquisti le aziende in crisi è davvero difficile che esistano altre strade per perseguire il bene comune a meno che non si perseguano strategie, come quelle del governo Monti, per impoverire l'Italia e gli italiani.
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