"Non dubitare che un gruppo di cittadini impegnati e consapevoli possa cambiare il mondo: in effetti è solo così che è sempre andata" (Margaret Mead)

giovedì 20 settembre 2012

Nazionalizzare la Fiat

Dunque Marchionne ha finalmente fatto vedere le carte che aveva in mano e svelato il suo bluff: il programma Fabbrica Italia, venti miliardi di euro da investire nelle industrie Fiat in Italia, era solo un inganno a cui hanno potuto abboccare o far finta di abboccare solo gli allocchi e le persone in mala fede.
Tra questi, ciascuno è libero di scegliere come collocarli tra le due categorie, Mario Monti, Fassino, Renzi, Chiamparino, Ichino, Sacconi, Bonanni e Angeletti (con la pavida e complice Camusso a tenergli il gioco) e molti altri.
Tra coloro che invece avevano compreso e denunciato da subito l'inganno ne cito due: Guido Viale e Giulietto Chiesa.
Una sceneggiata che ha fornito dolosamente il pretesto per portare un ulteriore attacco letale ai principi su cui si fonda una avanzata civiltà del lavoro – tempi e condizioni di lavoro compatibili con la dignità umana, le libertà sindacali, il contratto nazionale - ed è solo grazie alla resistenza della Fiom di Landini, Ariaudo e Cremaschi ed al coraggio degli operai di Pomigliano d'Arco e Mirafiori se i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, richiamati dalla Costituzione non sono stati completamente travolti.
Correttamente, mi sembra, Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera smonta le argomentazioni e le giustificazioni che Marchionne nell'intervista a Ezio Mauro ha addotto per spiegare il cambio di strategia: che il mercato dell'auto fosse in crisi perché la domanda di nuove autovetture non è più e non può essere più quella del passato lo si sapeva da anni e la congiuntura economica attuale ha solo accentuato un trend già in atto; la scelta della Fiat, a differenza dei propri concorrenti, di non investire su nuovi modelli di automobile ha accentuato il calo di vendite e la perdita di quote di mercato in Italia e in Europa; non è vero che la Fiat è andata ed è diretta verso una sempre maggiore internazionalizzazione: di fatto ha sempre più la testa ed il corpo radicato negli Stati Uniti mentre il crollo del mercato italiano non giustificherebbe la chiusura degli stabilimenti se l'azienda fosse in grado di produrre automobili di qualità tali da poter alimentare in quantità adeguate le esportazioni.

D'altronde Marchionne e gli eredi della famiglia Agnelli, come sostiene Monti, fanno il proprio mestiere e vanno dove li porta ciò che hanno all'altezza del cuore: il portafogli.
Marchionne è un finanziere e non un industriale ed oggi è più facile fare profitti con la finanza che con l'industria: si guadagna non con i dividendi ma con le speculazioni di borsa sulle azioni, con i lauti onorari di amministratori e presidenti di Società, andando a produrre dove il lavoro costa meno e si ricevono sovvenzioni dagli Stati per impiantare, finché le condizioni saranno favorevoli, nuovi stabilimenti.
Come in Serbia con operai pagati poco più di 300 euro al mese e i soldi a fondo perduto concessi dal governo di Belgrado.
Questo è il mercato o quello che chiamano il mercato.
Ora la risposta, per l'Italia, spetterebbe alla politica. Incontrare Marchionne per 'capire' restando però passivi spettatori, come intendono fare Monti, la Fornero e Passera, delle decisioni e delle convenienze dell'impresa. Oppure intervenire per salvaguardare il lavoro, l'interesse nazionale, la struttura produttiva del Paese così come fanno le Nazioni emergenti, la Serbia appunto ad esempio, o quelle sviluppate come gli Stati Uniti di Obama che hanno ottenuto il salvataggio della Chrysler, proprio attraverso Marchionne, con i soldi pubblici.
Secondo la CGIA di Mestre alla Fiat sono andati 7,6 miliardi di euro di fondi pubblici negli ultimi trent'anni dei quali solo 6,2 miliardi investiti in attività produttive. Non so se è un dato attendibile: a naso mi sembra sottostimato soprattutto se si pensa che dietro il boom della Fiat del dopoguerra vi è stata la scelta dello Stato italiano di privilegiare il trasporto, di merci e di persone, su gomma a svantaggio di quello via mare o via treno. E dunque la costruzione di infrastrutture, strade ed autostrade anziché ferrovie e metropolitane, per sostenere il boom dell'automobile. Se a questo dato si aggiunge l'aggravio per i conti dello Stato che deriverebbe dall'ulteriore ridimensionamento della presenza Fiat in Italia – cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, chiusura delle imprese dell'indotto, minori entrate fiscali - vi sarebbero i presupposti morali, giuridici e politici e la convenienza economica per nazionalizzare le fabbriche Fiat, affidandone la gestione agli operai stessi in forme cooperative, e riconvertile a produzioni ecologicamente compatibili, come propongono Viale e Pallante, ed in funzione di un piano nazionale dei trasporti (mezzi di trasporto collettivo, auto elettriche) e ridando nel contempo lustro alla gloriosa Alfa Romeo colpevolmente mortificata ed annichilita, per strategie suicide e miopi, dal management Fiat.
Se persino la Camusso chiede che lo Stato acquisti le aziende in crisi è davvero difficile che esistano altre strade per perseguire il bene comune a meno che non si perseguano strategie, come quelle del governo Monti, per impoverire l'Italia e gli italiani.

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