Credo, immagino, mi auguro che la
stragrande maggioranza delle persone stia dalla parte dei lavoratori
che lottano in difesa del proprio posto di lavoro, cioè del diritto
ad avere un reddito sufficiente per vivere e a conservare quel ruolo
e quel riconoscimento sociale che solo il lavoro assicura.
Si condividono le ragioni legate al
bisogno di chi lotta anche quando appare evidente che si tratta di
vertenze sconfitte in partenza perché le imprese che si cerca di non
far chiudere sono ormai 'fuori mercato' e non più in grado di
produrre profitti considerati adeguati dagli investitori o che
confliggono con la tutela dell'ambiente, della salute e
dell'integrità fisica dei cittadini.
E d'altra parte se in cima alle paure
degli italiani vi sono proprio la crisi e la perdita del lavoro non
dipende da una ben congegnata e coordinata campagna di
disinformazione dei media ma proprio dalla realtà della situazione
economica attuale del nostro Paese.
Realtà di cui danno prova tutti gli
indicatori economici: l'andamento del PIL, il tasso di disoccupazione
che assume livelli intollerabili soprattutto al Sud, per le donne e
per i giovani (il cui accesso al mondo del lavoro è stato reso
ancora più difficile proprio dalla riforma delle pensioni della
Fornero che ha bloccato l'uscita dalle aziende degli anziani),
l'aumento della pressione fiscale ed il contemporaneo incremento in
valore assoluto del debito pubblico, la riduzione del potere
d'acquisto di lavoratori e pensionati con i salari rimasti al livello
di decenni fa, gli sfratti per morosità ed i protesti e le
insolvenze bancarie a livelli record, la contrazione dei consumi
(compresi ovviamente quelli legati al turismo estivo), il saldo
negativo tra le nuove imprese che nascono e le vecchie che falliscono
(150 'tavoli' relativi ad aziende in crisi aperti presso il Ministero
dello Sviluppo Economico 'Economia con 180 mila lavoratori coinvolti
ed almeno 30 mila esuberi previsti), il ricorso alla cassa
integrazione per un numero di ore sempre crescente, la nuova emigrazione dei giovani verso i Paesi stranieri.
Per chi perde il lavoro (il “posto di
lavoro” esecrato dalla Fornero), soprattutto se ha più di quaranta
o cinquant'anni, non c'è speranza di poterlo ritrovare e non resta
che salire sulle gru, sulle torri, scendere sotto terra nelle miniere
per affermare i propri diritti o addirittura togliersi la vita in
preda alla disperazione.
La verità è che il lavoro non c'è,
non c'è più, non c'è per tutti.
Bisogna considerare, tutti insieme, una
serie di elementi: che la tecnologia, le macchine, i computer hanno
drasticamente limitato il fabbisogno di lavoro umano; che la crisi e
l'austerità riducono il potere di acquisto dei
cittadini-lavoratori-consumatori (cosa che va ad aggiungersi al
trasferimento di quote di reddito realizzatosi nell'ultimo trentennio
dai salari alle rendite ed ai profitti); che si è raggiunto per
l'Italia un livello tale nella disponibilità di prodotti di uso
durevole (le automobili, gli elettrodomestici), a differenza di quanto
accadeva nel periodo dell'impetuoso boom economico degli anni
cinquanta e sessanta, che offre solo spazi marginali all'incremento della domanda; che le merci e i servizi italiani spesso non
sono più concorrenziali con quelli prodotti in altri Paesi (per
capacità di innovazione, efficienza del sistema (si paragoni la
zavorra della corruzione, della criminalità organizzata e della
burocrazia che contraddistinguono l'Italia con la realtà, ad
esempio, della Germania), costo del lavoro, diritti sindacali, oneri
per la sicurezza rapportando le regole in vigore nel nostro Paese con
quelle in essere negli Stati dell'Est Europa e soprattutto di quelli
del Sud-Est asiatico).
Fino ad alcuni decenni fa si sarebbe
garantita la continuità di produzioni in perdita ponendo a carico
della collettività i relativi oneri ma ciò non è più consentito
dalle normative dell'Unione Europea. Ed a questo va a sommarsi il
fatto che in tempi di recessione, di austerità, di centralità data
alla questione del debito pubblico non ci sono più margini per
redistribuire il reddito a favore delle classi sociali più
disagiate.
Bisogna 'inventarsi' il lavoro si dice:
ma questo può valere per una ristretta cerchia di persone più abili
e più intraprendenti: non può riguardare la generalità di coloro
che hanno bisogno di lavorare. E d'altro canto, è questa la tanto
evocata crescita, un sistema fondato sull'incremento esponenziale dei
consumi – sull'usa e getta, sul consumo del territorio e delle
risorse naturali, sulle mode che impongono di dismettere gli oggetti
ancora funzionanti e funzionali per acquisirne di nuovi, nuove
automobili, nuovi abiti, nuovi gadget elettronici – si scontra
drammaticamente con la limitatezza delle risorse che ci mette a
disposizione il nostro Pianeta soprattutto se i livelli di consumo
occidentali fossero raggiunti, così come sarebbe giusto, dalla
totalità della popolazione mondiale.
Oppure si pensa che la piena
occupazione possa venire dai call center, dall'apertura h24 dei
centri commerciali, dai punti di scommesse sportive?
Ancora si dovrebbe essere consapevoli
che se la pubblica amministrazione, se alcuni comparti di servizi
ancora sostanzialmente al riparo dagli effetti della globalizzazione,
fossero 'efficientati' dal punto di vista dell'impiego di lavoratori
effettivamente rispondente ai bisogni produttivi, il dramma
occupazionale assumerebbe dimensioni bibliche.
In un sistema capitalistico l'economia
non ha come stella polare la soddisfazione dei bisogni umani ma la
produzione e conseguentemente il lavoro dipendono dalla possibilità
di vendere e di guadagnare. E se con la bacchetta magica si potesse
aumentare da un momento all'altro il potere d'acquisto dei cittadini,
in particolare dei ceti più poveri, i maggiori consumi si
rivolgerebbero inevitabilmente verso merci di qualunque genere
prodotte in Cina, automobili tedesche o giapponesi, viaggi nei paesi
tropicali, telefonini di fabbricazione coreana.
Al mercato, al capitalismo va
riconosciuto, così come fece Marx, che ha reso disponibili beni
materiali in misura mai conosciuta in precedenza dall'umanità ma, a
parte il fatto che a ciò non ha corrisposto una migliore qualità
della vita per gli individui ed una maggiore giustizia sociale, reca
in sé una serie di insanabili contraddizioni: alla pretesa
efficienza nell'impiego delle risorse e delle scelte produttive
determinate dalle leggi della domanda e dell'offerta, dalla capacità
delle imprese di incontrare le preferenze, i bisogni, i gusti dei
consumatori, a questo mondo della fantasia che è il sistema della
concorrenza perfetta va contrapposta la realtà dei monopoli e degli
oligopoli, dei bisogni e dei gusti indotti e coercitivamente imposti
attraverso la pubblicità, l'informazione, la persuasività dei modelli
dello star system, della subordinazione della politica (che cessa definitivamente di essere espressione delle
scelte democratiche dei cittadini e del bene comune) al profitto ed
agli interessi del grande capitale, della dissipazione delle risorse
umane e materiali.
Se l'economia è invece definita come
l'impiego di risorse scarse per la soddisfazione dei bisogni, deve
essere ripensata partendo proprio dalle necessità umane, dal come
incontrare quelle di ciscuno ed assicurare il diritto/dovere di tutti
di contribuire al benessere collettivo. E ciò richiede un progetto
complessivo e coerente di società, di Stato, di Europa, di Mondo per
ripensare il sistema produttivo assicurando giustizia, libertà,
democrazia e come questi valori possano essere rispettati anche in un
quadro di indispensabile pianificazione generale dell'economia.
Il nocciolo, il punto centrale sta nel
controllo pubblico e collettivo della produzione e della
distribuzione della ricchezza. Invece di attendere la chimera della
crescita, basata su produttività, competitività, flessibilità,
precarietà – tutti termini che di fatto significano ridurre
diritti e garanzie per i lavoratori - per creare occupazione e la
ricchezza da redistribuire successivamente (ed ipoteticamente) per attenuare le
disuguaglianze create dal mercato è possibile e necessario
rovesciare il sistema: combinare risorse umane (chi perde il lavoro e
chi lo cerca), tecnologie, saperi, ricerca, beni pubblici, patrimoni
confiscati alla malavita ed ai grandi evasori, aziende dismesse o che
chiudono perché non più remunerative, per produrre e rendere disponibili i
beni necessari per l'esistenza e la dignità degli esseri umani.
Cibo, acqua, casa, energia, trasporti,
cultura, istruzione, comunicazioni, salute, sicurezza, qualità della
vita, ambiente: anzitutto per coloro che sono impegnati direttamente
nel ciclo produttivo, una sorta di reddito di cittadinanza, e –
gratuitamente o a basso costo – per tutto il resto della
collettività.
Un sistema da articolarsi su tre
pilastri: lo Stato (perché vi sono materie – ad esempio l'energia
o i trasporti – che richiedono una programmazione ed una
pianificazione centralizzata), la gestione partecipata e diffusa dal
basso di beni comuni e imprese, l'iniziativa privata per ciò che
attiene la cultura, la creatività, l'arte, lo spettacolo, il tempo
libero, l'informazione.
Un sistema dove gli incrementi di
produttività, le innovazioni tecnologiche, le scoperte scientifiche
possano andare a vantaggio di tutti, e non unicamente del profitto e
per essere sciupate nella realizzazione di merci inutili, migliorando
la qualità della vita, la disponibilità di beni, la riduzione
dell'orario di lavoro.
Post Scriptum. La decrescita è termine
in sé poco seduttivo, quasi malaugurante, tant'è che alcuni si
sentono in obbligo di accompagnarlo, come fa Maurizio Pallante,
all'aggettivo felice (sarebbe più semplice ed opportuno parlare di riconversione
ecologica) ma identifica una visione razionale e giusta: produrre di meno e cioè ciò
che è utile e necessario, per preservare l'ambiente e la scarsità
di risorse che lo contraddistingue e la qualità della vita, non
riducendo l'esistenza umana ad una corsa all'accumulazione senza
limiti,
Ma evidentemente trova la possibilità
concreta di realizzarsi solo nel superamento del sistema
capitalistico e della logica del profitto, nel controllo pubblico
dell'economia, nella disponibilità di reddito e lavoro per tutti
perché non ci sia mai nessuno costretto a difendere, quale unica
possibilità per la propria sopravvivenza materiale, produzioni inquinanti
o nocive o moralmente inaccettabili.
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