Elvio Fassone, già magistrato e senatore, al quale avevamo chiesto, come Coordinamento dei gruppi Facebook per le dimissioni di Berlusconi, un messaggio da condividere con la piazza in occasione della manifestazione Agende Rosse di Salvatore Borsellino dello scorso 26 settembre a Roma ci aveva inviato queste riflessioni che, per motivi di tempo, non era stato possibile leggere in quella occasione.
Data la qualità dell'intervento abbiamo pensato di usare questa piazza telematica per condividerlo con voi........
L’anti-mafia siamo tutti
Penseremmo mai di convivere con la tubercolosi, con le inondazioni, con la fame, con l’AIDS? No, sicuramente. Se qualche governante ci invitasse a convivere pacificamente con queste sciagure, lo svergogneremmo e lo cacceremmo. Ci daremmo da fare, per combatterle. Cercheremmo dei farmaci efficaci, costruiremmo degli argini, daremmo aiuto e solidarietà. Ci batteremmo, insomma. Anche se quelle sono delle calamità naturali, molto difficili da contrastare. Ma nessuno penserebbe di rassegnarsi a subirle passivamente.
Invece con la mafia ci viene insegnato che conviene imparare a convivere con essa. Per molto tempo ci è stato detto che la mafia non esiste. Poi, quando non si poteva più nascondere l’evidenza, è cambiato il registro. Sì, la mafia purtroppo c’è, ma ha le sue ragioni. Che sono principalmente la debolezza dello Stato e delle istituzioni. La mafia ti dà tante cose che lo Stato non è capace di darti. Per questo è antica, radicata, inevitabile, invincibile. Dunque bisogna capirla, adattarsi, rassegnarsi. Conviverci, insomma.
Qualcuno lo proclama espressamente, e diventa persino ministro. Qualcuno, che siede in Parlamento, si permette di infangare la memoria di don Peppe Diana, che assassinato dalla criminalità organizzata. Molti non dicono chiaro che la mafia è una necessità, ma lo praticano. Parlano, neppure tanto sottovoce, di un “bisogno di mafia” per far girare l’economia. E l’economia mafiosa certamente gira, e molto. Il giro d’affari malavitoso è stimato in 130 miliardi di euro. Recentemente è stato accertato che sui più importanti locali di Roma ci sono le mani della mafia. E i proventi del crimine entrano nell’economia reale e inquinano anche quella.
Allora possiamo convivere? Possiamo continuare ad accettare questa sedicente lotta alla mafia, in cui si finge di combatterla e si fanno affari con essa? C’è tutto un mondo che si rallegra quando viene arrestato qualche latitante, che partecipa a convegni pieni di impegni fasulli, che approva anche leggi minacciose e impressionanti, che però alla mafia non fanno nessuna impressione.
Perché con l’altra mano traggono profitto da connivenze e complicità, indeboliscono gli apparati di contrasto, delegittimano la magistratura, isolano i coraggiosi. Quando venne varato l’attuale codice di procedura, un’intercettazione rivelò il commento di due mafiosi: “sai che ci fa Giovanni Falcone, ora che c’è la legge nuova? a raccattare triaca, va”, a raccogliere fagioli. Sapevano chi era Falcone, e quale fucile di latta gli avevano messo tra le mani.
Questo vuol dire “convivere”. Noi ci rifiutiamo di convivere con la mafia.
La mafia non è invincibile. Non è un oggetto misterioso, un grande vecchio che trama nell’ombra, una malattia sociale inestirpabile, un polipo dai mille tentacoli che non si sa in quali anfratti del mare stia nascosto. Essa ama far credere che sia così, per alimentare il mito della sua invincibilità. Ma non è così. La mafia sono uomini (e donne, purtroppo) con un nome e un cognome. Sono armi, covi, basi, uffici, droga, pacchi di danaro, relazioni umane. Sono banche, professionisti, fiancheggiatori, esattori del pizzo, legami politici, appalti, affari, tecniche di profitto. Sono cose concrete, visibili, individuabili, contrastabili.
La mafia è corruzione più violenza, intimidazione più omertà. La si può battere, ma per batterla occorrono alcune cose. La prima è conoscerla a fondo, sapere dove si manifesta, quali sono i suoi metodi e le sue tecniche, quali i suoi legami e le sue coperture. E avere il coraggio di denunciarle senza tregua. Non tanto come singoli, perché non si può chiedere l’eroismo a tutti. Ma insieme, coralmente, con tenacia. Come fate oggi, come hanno fatto i giovani di Locri quando hanno steso lo striscione “Uccideteci TUTTI” . Solo essendo insieme, e in molti, si può avere speranza di successo.
La seconda è contrastarla sul piano giudiziario e di polizia.. Non si può sperare di avere la meglio con la mafia sgretolando a poco a poco l’apparato giudiziario per assicurare l’impunità a qualche potente. Lo si può rafforzando la risposta con leggi adeguate, con risorse materiali, con l’autorevolezza e la solidarietà data alla magistratura che la combatte.
La terza cosa è ancor più fondamentale, ed è l’esigenza di togliere alla mafia la maschera seducente di contro-potere “buono”, quello che ti procura il lavoro, la casa, le cure sanitarie, uno status di persona inserita in un’organizzazione; un insieme di amici potenti, che tutela i tuoi diritti, raddrizza i torti che ti fanno, ti fa sentire protetto, insomma ti dà quello che lo Stato non è capace di darti. E’ terribile, ma in parte vero quello che ha detto al magistrato un mafioso arrestato: “Quando voi venite nelle nostre scuole a parlare di legalità e giustizia, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi?”.
E’ la traduzione mafiosa di quello che ebbe a dire il generale Dalla Chiesa nell’ultima intervista prima di essere assassinato: “Gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”.
Tocca alla politica fare questo, non c’è dubbio. Ma tocca a noi scegliere quale politica vogliamo. Ed esigere che lo faccia.
Per questo, per battere la mafia, è necessaria una quarta ed ultima cosa. L’anti-mafia sociale. Abbandonare l’apatia, la rassegnazione del “tanto non c’è nulla da fare”. Non lasciare soli i cento ribelli che hanno deciso di non pagare più il pizzo. Far capire che quelli che denunciano non sono imbecilli, ma eroi. Affiancare i giovani che, come quelli di “Libera”, utilizzano a fini sociali i beni confiscati ai mafiosi. Pretendere un codice etico dai partiti che chiedono il nostro voto, ed esigere che non siedano nelle istituzioni - tutte le istituzioni - individui che hanno a che fare con la giustizia. Praticare noi stessi la legalità, anche se talvolta ha un prezzo alto. Attuare quello che diceva Altiero Spinelli tempo fa “il Paese in cui è bello riconoscersi è fatto di comportamenti, non di monumenti”.
(Elvio Fassone)
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